La richiesta di sussidi per l’acquisito di veicoli elettrici per scongiurare il rischio che a rimetterci siano i i lavoratori di Mirafiori e Pomigliano. La possibilità che l’Italia entri nell’azionariato di Stellantis, come già avviene in Francia. Sullo sfondo gli effetti di anni di delocalizzazione industriale, con lo spostamento dei costi delle crisi di sistema sui lavoratori. Sono alcuni degli elementi dello scontro alimentato in questi giorni dalle parole di Carlos Antunes Tavares, amministratore delegato di Stellantis, e Adolfo d’Urso, ministro delle Imprese e del Made in Italy.
Un botta e risposta che nasconde l’assenza di una politica industriale di medio – ampio respiro da parte del nostro Paese e lo sbilanciamento, tutto a favore della delocalizzazione, da parte dell’azienda automobilistica. Azioni di corto respiro, quelle legate ai sussidi, che non risolvono i veri nodi della questione.
Occorre un cambio di paradigma che porti i lavoratori nell’azionariato dell’azienda (non nella sola partecipazione agli utili): una scelta che favorirebbe la creatività e il talento e che bilancerebbe il peso delle scelte imprenditoriali. Ne abbiamo parlato con Stefano Zamagni, tra i molti incarichi, ex presidente dell’agenzia per il Terzo settore e docente di Economia civile all’Università di Bologna.
«Stellantis? È solo uno dei tanti casi (e non l’ultimo, dobbiamo prepararci) che abitano la scena attuale che succede, quando un paese, in questo caso l’Italia, non predispone una vera e propria politica industriale di medio – lungo termine. Si preferisce intervenire sul breve termine con le solite misure cosiddette tampone, ma è evidente che quello che oggi noi vediamo è un nodo che è giunto al pettine e poteva essere previsto».
Professor Zamagni, di quale nodo parla?
Fiat, nel momento in cui delocalizza e sposta il suo quartier generale in Olanda, lo fa per ragioni di convenienza economica. In principio generale è vero che i capitali devono poter muoversi da un paese all’altra e da un settore all’altro alla ricerca di profitto. La logica che presidia questo è la logica dell’efficienza allocativa.
Però.
La domanda che ci si deve porre è se l’esigenza allocativa sia l’unico valore che deve essere difeso in situazioni di questo tipo: questo è il limite culturale e politico che emerge. È ovvio che non può essere l’unico valore. In questo quadro il lavoro viene ancora una volta ad essere considerato come la variabile di scarto che deve servire soltanto a favorire la massimizzazione del profitto. Una variabile negoziabile.
Occorre un bilanciamento.
L’efficienza allocativa è indubbiamente importante. Il punto è che ci vogliono sistemi di compensazione. E i sistemi di compensazione altro non sono che la politica industriale che un governo deve mettere in atto, con una prospettiva di medio e lungo termine.
Un esempio.
Prendiamo il caso dell’auto elettrica. La Cina, di cui adesso tutti in occidente abbiamo timore, è molto più avanti di noi, ma ha un piano e una strategia, avviati nel 2009, più di 13 / 14 anni fa.
Torniamo in Italia.
Quello che è venuto meno è stata l’armonizzazione. Ha pesato l’esigenza di aumentare l’efficienza. Ma se l’aumento dell’efficienza viene pagato con una diminuzione di quel diritto fondamentale che è il diritto al lavoro, è evidente che si crea una situazione difficile.
Un bilanciamento che secondo lei passa per l’attuazione dell’articolo 46 della Costituzione.
Quell’articolo dice che il lavoro deve essere presente nella gestione delle imprese. Molti credono che con questa partecipazione ci si riferisca alla distribuzione degli utili, ma non è così. Quello che importa, ed è quello che la Costituzione dice, è l’ingresso dei lavoratori nella gestione dell’impresa, vuol dire prendere le decisioni fondamentali per la stessa. Se in Stellantis ci fosse un’adeguata rappresentanza del lavoro, tutto quello di cui noi vediamo oggi non avrebbe ragione di esistere. Perché i costi sociali dell’efficienza la devono pagare solo i lavoratori e non altri segmenti della società?
Già, perché?
Perché l’articolo 46 della Costituzione non viene attuato. Il punto è che la partecipazione azionaria dei dipendenti lavoratori è un modello da anni in uso in Silicon Valley. Gli americani, da pragmatici quali sono, hanno capito che non si può andare avanti con un modello di impresa in cui chi prende le decisioni sono solo i rappresentanti di chi ha investito e non chi lavora.
Come legge lo scontro sui sussidi?
Il discorso attorno ai sussidi in realtà rientra nell’ottica del breve termine. Sono misure con cui si può tirare avanti ancora anche quattro anni, ma il problema, il nodo va risolto nella prospettiva del lungo termine e in un cambio radicale nell’organizzazione dell’impresa.
Nel frattempo, è chiaro poi che se lo stato italiano intervenisse nel capitale di Stellantis, posto che glielo consenta, potrebbe essere già un primo passo nella direzione della partecipazione azionaria tra investitori dipendenti. Certo, il Governo italiano ha già detto che concederà gli incentivi richiesti, però è chiaro che non basta. Io vedo con favore l’ingresso del dello Stato italiano nel capitale con una quota adeguata, come ha fatto il governo francese. Consentirebbe infatti nel momento opportuno di avere una voce forte e credibile. La nostra politica è però di corto interesse e guarda soltanto a vincere le proprie elezioni.
Secondo lei, questo cambio nell’organizzazione dell’impresa garantirebbe competitività all’azienda.
Oggi la creatività e la capacità innovativa nelle imprese è garantita dal lavoro, non più dal capitale. È questo il fattore competitivo per eccellenza. La creatività non viene dalle macchine o dai soldi, ma dalle persone, che solo se motivate e coinvolte nei processi decisionali daranno il meglio di sé. Gli americani l’hanno capito e non è un caso che il meglio dell’high tech sia in California, in Silicon Valley.
(Vita)