E’ possibile dividere il grande tema della democrazia economica in due ambiti principali (a cui se ne sta aggiungendo un terzo nascente, come vedremo). Il primo riguarda la capacità di sottoporre a controllo democratico i mercati finanziari. Il secondo riguarda la capacità dei lavoratori di partecipare attivamente alla gestione delle imprese. Sono temi di grande portata, che derivano da una contrapposizione aspra con il pensiero neoliberista degli ultimi trent’anni, e che hanno avuto un forte impatto sul dibattito scaturito in seguito alla crisi del 2007. Ma la democrazia economica ha una derivazione fondamentale con l’idea di uguaglianza economica, anch’esso oggetto di una disputa virulenta negli ultimi anni. Per quanto riguarda il primo punto, citiamo Enrico Grazzini dal suo Manifesto per la democrazia economica: “La crisi è partita dalla finanza. La causa dei disastri economici è nella finanza selvaggia, la quale è stata completamente deregolamentata negli Usa come in Europa e in Italia, da un mondo politico complice o succube della speculazione. Gli stati si sono svenati per salvare le banche che giocano alle scommesse finanziarie, e i bilanci pubblici sono finiti i deficit pesantissimi: i soldi dei contribuenti sono stati spesi per coprire i buchi della finanza speculativa”. Per il secondo, basti ricordare che negli ultimi decenni, come ricorda Luciano Gallino in La lotta di classe dopo la lotta di classe, abbiamo assistito a una progressiva ed inesorabile erosione di perdita di reddito da parte dei lavoratori di tutto il mondo, a vantaggio soprattutto delle rendite. Solo qualche esempio: nei 15 primi Paesi dell’Ocse, nel periodo 1976 -2006, l’incidenza sul Pil dei redditi da lavoro (comprendenti anche i redditi da lavoro autonomo) è calata di 10 punti percentuali, dal 68 al 58%. In Italia addirittura di 15 punti, arrivando al 53%. Dato che un punto di Pil vale oggi circa 16 miliardi di euro, se tutto fosse calcolato sul Pil attuale avremmo una perdita di reddito di 240 miliardi euro, una quota enorme. D’altra parte, il tema della gestione più democratica dell’impresa è continuamente oggetto della pubblicistica, anche quella italiana. Tre anni fa La Repubblica dedicava un ampio articolo ad alcune realtà internazionali: in una società brasiliana, la Semco, che si occupa di scanner con 3 mila dipendenti, le decisioni avvenivano tramite votazione e gli orari erano autogestiti, oppure in un’altra – la Saic – attiva nell’ambiente e nell’energia, con 45 mila dipendenti e 10 miliardi di dollari di fatturato, la proprietà era di fatto dei dipendenti, con un sistema di partecipazione aperto e con le conoscenze individuali al servizio dell’azienda, o ancora, in un’altra americana chiamata Valve, che produce videogame, i dipendenti sceglievano i collaboratori e lo stipendio veniva stabilito tra colleghi. Possono sembrare esempi esotici. Ma senza andare troppo lontano, pensiamo al sistema della Mitbestimmung (“codecisione”) in Germania, secondo la quale i lavoratori possono eleggere i loro rappresentanti nel board delle maggiori imprese private e pubbliche e influire sulle scelte strategiche e sulla gestione aziendale. Più in generale, come ricorda ancora Enrico Grazzini, i Paesi con più diritti di partecipazione presentano indici di efficienza economica migliori di quelli con meno diritti, una buona ragione per la loro adozione anche dal punto di vista degli azionisti. Infine, Il tema della democrazia economica passa inevitabilmente anche attraverso le declinazioni della sharing economy, dalle ricadute ancora imprevedibili, ma che per alcuni versi rappresenta una presa di controllo del mercato dal basso da parte di utenti e consumatori.
(www.sixmemos.org, 08.12.2015)