Sindacalismi, a confronto tre paesi europei.

Da che mondo è mondo a chiunque si occupi di economia, è giustamente richiesta una preparazione accademica specifica o comunque acquisita per molti anni sul campo. In questo contesto il ruolo delle parti sociali nella gestione delle risorse di un Paese non è affatto marginale.

Ciononostante in Italia i sindacati si sottraggono alla regola, altrove inderogabile. I dirigenti sindacali quando (raramente) laureati, lo sono in altre facoltà, o i loro curriculum lavorativi appaiono sproporzionatamente modesti nei confronti delle mansioni che sono chiamati a svolgere. Troppo spesso si dimentica che l’economia è una scienza, seppure non sempre esatta e non si basa certo sugli impulsi emozional-populisti in uso a casa nostra.

Enrico Comelli , comellienrico3@gmail.com
Credo che nei curricula dei quadri sindacali vi siano più studi universitari e preparazione professionale di quanti ve ne fossero trenta o quarant’anni fa. Ma lo stile del sindacalista, molto spesso, è ancora quello del tribuno popolare che denuncia le ingiustizie sociali, le colpe del capitalismo e dà la sensazione di pensare che le considerazioni economiche siano soltanto il paravento dietro il quale si nasconde l’ingordigia del «padrone». Furono necessari parecchi anni di lotte sindacali, nell’Italia repubblicana, prima che un sindacalista facesse giustizia dell’affermazione secondo cui «il salario è una variabile indipendente». Il sindacalista era Luciano Lama, segretario generale della Cgil, e l’occasione fu una intervista a Eugenio Scalfari su La Repubblica del 24 gennaio 1978. Parecchi altri sindacalisti pensavano allora (e continuano a pensare) che le battaglie per il lavoro possano ignorare qualsiasi considerazione di economia, nazionale e internazionale. Non è accaduto soltanto in Italia. Quando Margaret Thatcher, Primo ministro del Regno Unito, decise la chiusura di 20 miniere di carbone e cominciò con quella di Cortonwood, nello Yorkshire, i minatori britannici (circa 165.000) proclamarono uno sciopero che durò dal marzo 1984 al marzo 1985. La decisione della «Signora di ferro» partiva dalla constatazione che il carbone era molto più caro degli idrocarburi e che le miniere erano diventate ormai un intollerabile fardello per il bilancio dello Stato. Ma il capo dell’Unione nazionale dei minatori era un sindacalista di formazione trozkista, Arthur Scargill, per cui le considerazioni economiche erano trascurabili. Credette che la chiusura delle miniere fosse una buona occasione per dichiarare guerra alla politica liberista di Margaret Thatcher e divenne così il leader di un fronte che suscitò simpatie e consensi anche nelle sinistre radicali di altri Paesi. Per mettere fine allo sciopero furono necessari un congresso speciale dell’Unione minatori e un voto di stretta misura. Nella storia più recente un esempio di segno opposto viene invece dalla Germania. Dopo il crollo del sistema sovietico, all’inizio degli anni Novanta, molti industriali tedeschi cominciarono a trasferire le loro attività in Paesi ex comunisti dove i costi di lavorazione erano molto più bassi. Per evitare questa pericolosa delocalizzazione, un cancelliere social-democratico, Gerhard Schröder, giunse alla conclusione che occorreva offrire agli imprenditori un contesto sociale meno costoso e ridusse notevolmente gli oneri sanitari e previdenziali dello Stato. Raggiunse questo risultato grazie alla collaborazione dei sindacati anche perché i loro rappresentanti sedevano nei consigli d’amministrazione, conoscevano la situazione ed erano consapevoli del pericolo che minacciava l’economia tedesca. Questa è la mitbestimmung, una parola che si traduce in italiano come cogestione o codeterminazione. Il sistema ha favorito il successo dell’economia tedesca, ma è difficilmente applicabile in un Paese dove prevale ancora la convinzione che il sindacato debba essere antagonista.

(Lettere al Corriere, S. Romano, Corriere della Sera, 10.11.2015)

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