Due gli elementi cardine del coinvolgimento diretto dei lavoratori: partecipazione agli utili e nei meccanismi decisionali.
Si scrive Mitbestimmung ma si legge cogestione o meglio ancora partecipazione dei lavoratori alla vita dell’azienda. A fare scuola è stato il modello tedesco della governance duale ma anche l’Italia ci ha provato, senza esito, in tempi non sospetti. Era il 1921 e Giovanni Giolitti governava un’Italia appena uscita dalla guerra e da quello che oggi gli storici chiamano “biennio rosso”. Fu l’allora presidente del consiglio, reduce da una serie di scioperi, occupazioni di stabilimenti, mediazioni tra operai ed imprenditori concluse con la promessa di un aumento dei salari in cambio della rinuncia da una soluzione rivoluzionaria, a presentare una proposta di legge dal titolo “Controllo sulle industrie da parte dei lavoratori che vi sono addetti”. La partecipazione venne poi messa da parte perché altri problemi apparvero all’orizzonte; toccò poi ai nostri padri costituenti tentare di istituzionalizzare la partecipazione ma l’argomento rimase materia per soli addetti al lavoro.
Per conoscere di più e meglio l’argomento abbiamo parlato con Goffredo di Palma, direttore personale e organizzazione di Volkswagen Group Italia dal 2004 al 2013 che, nel 2012, ha partecipato attivamente alla firma del primo Contratto Integrativo di Partecipazione Aziendale in Italia. “Il dibattito in Italia è di estrema attualità, tanto che al Senato è arrivata una proposta di legge che, se approvata, potrebbe modificare e finalmente regolare i rapporti tra aziende e dipendenti. Due sono gli elementi fondamentali della proposta: la partecipazione agli utili e alla gestione da parte dei lavoratori dipendenti, che in questo modo entrano a tutti gli effetti nei meccanismi decisionali” spiega di Palma. “È il modello tedesco ripreso, ed in qualche modo adattato, al contesto economico italiano con lo scopo di far ripartire un’economia ferma da tempo. La partecipazione, secondo i legislatori, potrebbe incidere in maniera positiva sulla vita aziendale accentuando la competitività, diventata oggi una caratteristica da cui le aziende non possono prescindere, ma soprattutto facendo del concetto di collaborazione fra lavoratori ed imprenditori la base da cui ripartire. Quello che il modello tedesco ci insegna” continua ancora di Palma “è che la conflittualità viene in gran parte sostituita da una dialettica, a volte anche aspra, presente in ogni fase decisionale e che conduce ad un confronto a tutti i livelli. La decisionalità condivisa, inGermania, non ha mai rappresentato un ostacolo alla crescita aziendale, ma ha anzi tutelato i diritti dei lavoratori e garantito una maggiore pace sociale. Il tessuto economico italiano, caratterizzato da aziende di varie dimensioni ma comunque fortemente legate al territorio e molte volte di matrice famigliare, offre una materia prima propensa ad accogliere un’organizzazione del lavoro di questo tipo. Credo che l’obiettivo della legge Sacconi” conclude quindi di Palma, “sia anche quello di creare occasioni di confronto tra aziende e sindacati il cui ruolo dovrà inevitabilmente essere modificato e tendere piuttosto all’evidenziazione di problematiche legati ai meccanismi aziendali o alla proposta di strumenti che stimolino la produttività partendo dai lavoratori”.
(M. Tolini, Economia Nordest, settembre 2015)