Se la “locomotiva” tedesca va in sciopero: lotte sindacali e politiche salariali nella Germania di Angela Merkel.

Il 2015 si preannuncia come uno degli anni più caldi per la Bundesrepublik. Non soltanto per un inverno piovoso e grigio, dove – con gran rammarico dei bambini e delle loro slitte – la neve è caduta per appena pochi giorni dicembrini. E non esclusivamente per la torrida estate che attualmente regala un insolito cielo azzurro e un sole brillante. Il 2015 ha tutte le caratteristiche di un anno “caldo” anche e soprattutto perché la Germania pare attraversata dalla maggiore ondata di scioperi registrata negli ultimi vent’anni.

Ferrovie, poste, asili pubblici, assistenza sanitaria, grande distribuzione, questi sono i settori in cui l’agitazione dei lavoratori ha raggiunto – o sta raggiungendo – il limite della sospensione del lavoro. Il tratto comune è rappresentato dalla medesima rivendicazione: l’aumento salariale. A eccezione dei trasporti su rotaia, dove la protesta è guidata dalla GDL (Gewekschaft Deutscher Lokomotivführer, ovvero il sindacato dei macchinisti), nei restanti settori gli scioperi sono stati indetti dal sindacato Ver.Di (Vereinte Dienstleistungsgewerkschaft, ovvero l’unione dei sindacati dei servizi) che, con oltre due milioni di iscritti, è numericamente il secondo sindacato tedesco dopo l’IG Metall (rappresentante i lavoratori industriali, soprattutto automobilistici). Sia Ver.Di che IG Metall figurano inoltre all’interno della Deutscher Gewerkschaftsbund, la principale – ma non unica – confederazione sindacale tedesca, della quale però non fa parte la GDL.

La posta gettata sul banco dai rappresentanti dei lavoratori è abbastanza alta: in diversi dei suddetti settori sono stati dichiarati scioperi “a tempo indeterminato”, in cui la sussistenza dei partecipanti è garantita mediante la Streikkasse (fondo per gli scioperanti) del sindacato, non essendo ovviamente il datore di lavoro tenuto a corrispondere uno stipendio per il periodo di sospensione delle attività. Gli effetti sono stati parimenti notevoli: ferrovie, anche urbane, paralizzate; asili chiusi; posta bloccata nei centri di smistamento. Se i servizi minimi sono stati, a norma di legge, garantiti, gli indici di adesione e di conseguente astensione dal lavoro hanno ampiamente dimostrato l’unità di intenti tra sindacato e lavoratori, anche al di là della percentuale di iscritti.

Tuttavia, per un osservatore dell’Europa meridionale prostrata dalla crisi e dall’austerity, l’immagine di una Germania ricca che lotta per una busta paga più consistente potrebbe far storcere il naso. Su un piano comunitario, si rischia forse di veder accentuato il crescente rancore verso i Tedeschi, capaci di bloccare il proprio paese per un euro all’ora in più, mentre intenderebbero imporre alla Grecia una significativa riduzione delle pensioni. Eppure sono la stessa crescita economica della Bundesrepublik e le vicende sindacali tedesche negli ultimi vent’anni a giustificare ampiamente le attuali agitazioni.

In Germania, dove al volgere del secolo la disoccupazione oscillava tra il 9,4 e l’11,7%, le organizzazioni dei lavoratori hanno scelto di sacrificare la crescita salariale e la stabilità (anche accettando forme di flessibilità molto accentuata) alla difesa dei posti di lavoro e, parallelamente, al miglioramento di livelli di produzione – favorite, in questo caso, dalla pratica di Mitbestimmung, ovvero dalla compartecipazione del sindacato alla gestione delle imprese. I risultati sono ampiamente illustrati dalla crescita del paese e dall’abbattimento continuo del tasso di disoccupazione, sceso dal 2005 a oggi sotto il 5% (dati di marzo 2015). Questo trend, in netta controtendenza rispetto ai restanti paesi europei, è stato pagato in gran parte dagli stessi lavoratori tedeschi, che hanno subito in questi anni anche tassi di inflazione superiori al 2%. Mentre l’unico magro compenso è stato rappresentato dalla riforma delle politiche assistenziali (il cosiddetto Piano Hartz) avvenuta tra il 2002 e il 2005.

Se dunque la Germania cresce con previsioni riviste continuamente in positivo, Scheuble dichiara orgogliosamente il raggiungimento dello schwarze Null (l’assoluto pareggio di bilancio) e si promettono significative riduzioni nella pressione fiscale, anche le categorie di lavoratori che maggiormente hanno portato sulle spalle il carico di questo processo intendono adesso partecipare dei benefici economici dello sviluppo – supportati nelle loro rivendicazioni anche da un auspicabile aumento dei consumi interni, che verrebbe a “normalizzare” il sistema tedesco.

La situazione è però ancora lungi dall’essersi chiaramente definita e l’opposizione dei datori di lavoro rischia di essere irriducibile come la volontà dei sindacati di proseguire la lotta. Ingo Kramer, presidente della BDA (Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände, l’unione federale dei datori di lavoro) ha recentemente definito “irresponsabile” la campagna di scioperi portata avanti da Ver.Di, pronunciandosi duramente contro i rappresentanti dei lavoratori. Lo Stato, come arbitro neutrale nelle vertenze, avrà infine un’importante voce in capitolo, nella misura in cui saprà alleviare determinate tensioni – magari mediante opportuni sgravi fiscali e concessioni – e produrre una concreta mediazione, favorito anche dall’eterogenea composizione della Grande Coalizione.

Intanto, mentre la partita salariale pare appena iniziata, un sole cocente continua a inondare di luce le strade berlinesi. Sarà un anno caldo.

(N. Bassoni, www.jobsnews.it, 15.06.2015)

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