Il movimento sindacale italiano ha avuto storicamente il merito di saper accompagnare nel sostegno ogni passaggio difficoltoso della Repubblica, nell’idea che la arretratezza del paese, le difficoltà economiche, gli attacchi terroristici interni, fossero motivi più che sufficienti per impegnare la propria realtà rappresentanza di interessi specifici nella società, anche per la tenuta delle istituzioni. Ha saputo così rappresentare i propri interessi di “classe”, dentro la logica più vasta della comunità nazionale.
I propri istinti spinti dalla pluralità delle proprie culture, gli hanno consentito di assumere posizioni in grado di produrre sintesi importanti nel sociale, di essere soggetto riconosciuto da tutti come risorsa comunitaria. Non è che nel corso del periodo repubblicano non si fossero manifestate singole pulsioni divaricanti nel movimento sindacale operate ad esempio dalla sinistra sindacale, obbligata al soccorso richiesto dal loro partito di riferimento. E tuttavia, dopo brevi soste, si ritornava nel convoglio unitario, non raramente, per evitare il vicolo cieco. Ma in questi ultimi anni la situazione è cambiata. Buona parte della sinistra sindacale, in assenza di solidi ancoraggi politici, e sempre più preda di pulsioni che la spingono verso posizioni poujadiste in alleanze manifeste con partiti populisti e con porzioni della propria base sempre più attratte dal populismo di destra e da quella di sinistra, assenza di luoghi di mediazioni e di riconoscimento della utilità della intermediazione.
Questo è avvenuto soprattutto per il cambiamento della natura del sistema politico italiano sempre più autoreferenziale e lontana dalla vocazione partecipatrice. Ad esempio anni fa le forze politiche e sociali condividevano insieme la promozione di luoghi di partecipazione e di poteri dei cittadini nella scuola, nella sanità, nella stipula di patti territoriali per lo sviluppo. All’ombra di partiti partecipati si ritrovavano ogni associazione di ogni interesse per la soluzione partecipata dei problemi. Ora tutto ciò non c’è più. La intermediazione e sostituita dai media che sono prodotti da interessi privati che si incaricano di “orientare” insieme ai capi partiti sempre più soli e vulnerabili a ragione di “bolle” di consensi che gonfiano e sgonfiano nel volgere di pochi attimi. Cosicché si discute di autonomia regionale ma non del “self government” dei cittadini attraverso la sussidiarietà. Il triangolo scuola, famiglie imprese non c’è più, ed ormai non riusciamo neanche a capire più che programmi ha la scuola.
Nella sanità i partiti fanno tutto loro: progettano, gestiscono e controllano e nessuno riesce a capirci qualcosa. Nella pletora delle istituzioni locali reinseriscono le province, ma se cittadini vogliono loro stessi autogestirsi una scuola, un asilo e qualsiasi altro servizio in assetto sussidiario ne gli riconoscono agevolazioni ne gli garantiscono le autorizzazioni. E a questo punto mi chiedo del perché i sindacati confederali non si mettano alla testa di un movimento che riporti in vita la partecipazione dei cittadini-lavoratori in generale negli affari della società ed anche la partecipazione dei lavoratori alle decisioni d’impresa come sottolinea l’articolo 46 della costituzione; la indicazione più disattesa della nostra carta costituzionale. Sarebbe interessante datosi che in assenza di luoghi partecipativi si sviluppano i populismi di destra e di sinistra ed il ruolo dei lavoratori e dei cittadini nella Repubblica diventa sempre più residuale. Se lo dovessero decidere davvero potrebbero ritrovare unità ed efficacia, e soprattutto alcuni di loro eviterebbero di danneggiarsi commettendo l’errore marchiano di allinearsi proprio con coloro che propongono l’idea del loro ridimensionamento.