C’è chi ha puntato su sanità e previdenza complementare; chi su istruzione e assistenza familiare; chi invece ha preferito il premio di risultato «cash» in busta paga. Il ministero del Lavoro è tornato a pubblicare i dati sulla contrattazione di secondo livello.
Al 14 novembre gli accordi depositati sono saliti a 39.287 (all’ultima rilevazione di maggio ci si fermava a poco più di 32mila). I contratti attivi sono 16.367, 13.352 aziendali e i restanti 3.015 territoriali (un dato quest’ultimo in crescita, spinto anche dall’accordo Confindustria-sindacati del luglio 2016 per sviluppare la cultura del premio di produttività nelle realtà aziendali, specie Pmi, prive di rappresentanze sindacali).
Il 51% dei contratti attivi riguarda imprese sotto i 50 dipendenti (un altro 15% aziende tra i 50 e 99 – il restante 34% imprese sopra i 100 addetti). Il 40% interessa il settore industria, il 59% i servizi, l’1% l’agricoltura. Dei 16.367 contratti attivi, la stragrande maggioranza, 12.885, si propone di raggiungere obiettivi legati a produttività; 9.709 redditività, 7.840 qualità, 7.553 misure di welfare e 2.302 piani di partecipazione (ciascun contratto può prevedere più obiettivi).
I lavoratori beneficiari di premi di produttività, considerati contratti aziendali e territoriali, sono 3,2 milioni e l’importo medio è di 1.479,59 euro. Le persone che invece hanno fruito di welfare sono 2,5 milioni con un valore medio di 1.545,07 euro (in base all’accordo, ciascun addetto può aver preso in parte premio e in parte welfare).
L’attuale normativa, ripristinata nel 2016, prevede la cedolare secca del 10% sui premi di risultato fino a 3mila euro ed entro un tetto massimo di 80mila euro di reddito (si intercettano operai, impiegati e una fetta di quadri e dirigenti non apicali); se si trasforma il «cash» in misure di welfare è prevista la completa esenzione fiscale. È in vigore anche un mini incentivo per l’azienda: in caso di coinvolgimento paritetico sui primi 800 euro scatta una decontribuzione di 20 punti.
Certo, la contrattazione di secondo livello si concentra quasi prevalentemente nel Nord-Italia: prendendo a riferimento i 16.367 accordi attivi infatti il 76% delle imprese interessate risiede al Nord (17% al Centro, appena il 7% al Sud); e ci sono ancora paletti e appesantimenti burocratici per le imprese (da ultimo, quelli introdotti, per fruire degli sgravi, da un recente circolare Entrate-Lavoro).
Il tema dello scambio virtuoso salario-produttività quanto più “in prossimità” della fabbrica è tuttavia strategico; e anche l’attuale governo è pronto a supportarlo: «Occorre stimolare aumenti di produttività – spiega Pasquale Tridico, economista del lavoro a Roma3 e consigliere economico del ministro del Lavoro, Luigi Di Maio -. È necessario, quindi, un patto per la produttività all’interno di una cornice di dialogo sociale tra le parti, per il rilancio della produttività delle aziende e del sistema paese».
A livello tecnico si starebbe ragionando sui tetti: gli attuali 80mila euro di reddito potrebbero salire a 100mila per allargare la platea dei lavoratori interessati. Il punto è che «bisogna recuperare il Sud, dove tutti gli indicatori dall’occupazione all’istruzione alla produttività sono negativi – evidenzia il presidente del Cnel, Tiziano Treu -. Positiva la diffusione del welfare, qui bisognerebbe darsi delle priorità rivedendo l’art 51 del Tuir con un riordino delle agevolazioni».
«Il fatto che quasi metà dei 16.367 contratti attivi prevedono misure di welfare aziendale conferma che questo strumento gestionale si è ormai consolidato – aggiunge Stefano Passerini, a capo dell’area sindacale di Assolombarda -. I 2.302 contratti che prevedono un piano di partecipazione sono un primo segnale della sfida culturale che vedrà coinvolta, nei prossimi anni, l’organizzazione del lavoro».