Il successo economico della Germania, dalla ricostruzione sino ai giorni nostri, viene generalmente attribuito, e a ragione, alla scelta dell’economia sociale di mercato, cioè di un capitalismo solidale che mirava a imbrigliare e indirizzare «gli spiriti animali del capitalismo selvaggio» verso obbiettivi di solidarietà, di partecipazione e di costruzione del bene comune. Quell’Ordoliberalismo che ha non pochi punti di contatto con la Dottrina sociale della Chiesa. È questa la strada attraverso la quale parte, nei primi anni 50, la ricostruzione economica della Germania sotto la regia di statisti del livello di Adenauer e di Erhard.
In questo contesto una delle scelte più significative, e felici della ricostruzione tedesca, fu quella di introdurre fin dagli anni ’50, con grande lungimiranza, seppure con cautela, la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa incentivando, in tal modo, la partecipazione dei lavoratori e del sindacato alla gestione stessa delle aziende. Un principio di solidarietà e di sussidiarietà che l’economia sociale di mercato condivide con la Dottrina sociale della Chiesa: «Il rapporto tra lavoro e capitale trova espressione anche attraverso la partecipazione dei lavoratori alla proprietà, alla sua gestione, ai suoi frutti. È questa un’esigenza troppo spesso trascurata, che occorre invece valorizzare al meglio…. La nuova organizzazione del lavoro, in cui il sapere conta di più della sola proprietà dei mezzi di produzione, attesta in maniera concreta che il lavoro, a motivo del suo carattere soggettivo è titolo di partecipazione» (Compendio dottrina sociale della Chiesa n.281).
È questa una linea che arriva fino al lungo cancellierato di Helmut Kohl e che si manifesta positivamente anche nel delicato e storico passaggio della riunificazione delle due Germanie: quando, facendo inorridire gli economisti di mezzo mondo, Kohl avvia la riunificazione tedesca con una scelta coraggiosa chiaramente dettata dal primato della solidarietà e della politica sulle ragioni meramente economiche: la parità di cambio tra lo svalutatissimo marco della Germania est e quello più che florido e solidissimo della Repubblica federale. Una scelta, giudicata «folle» da tecnici e tecnocrati, in contrasto con ogni logica economica autoreferenziale, ma che era, in realtà l’unica possibile, e che alla fine risulterà vincente, per costruire l’unità della nuova Germania: una scelta ispirata al principio, anch’esso della Dottrina sociale cristiana, che «il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica. Lo Stato, infatti, deve garantire coesione, unitarietà e organizzazione alla società civile di cui è espressione, in modo che il bene comune possa essere conseguito con il contributo di tutti i cittadini» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa n. 168).
Sarebbe, tuttavia molto difficile sostenere che a tutt’oggi sia rimasta questa la linea sulla quale hanno continuato a muoversi la politica e l’economia tedesca.
Con l’uscita di Kohl e l’avvento dell’era Merkel il vento della globalizzazione comincia a soffiare forte anche sulla Germania. liberando molti «spiriti animali» del capitalismo selvaggio e del profitto a qualsiasi costo. Nell’era dell’economia globale sono moltissimi i rischi rischi legati alle nuove dimensioni delle relazioni commerciali e finanziarie: «non mancano, infatti, indizi rivelatori di una tendenza all’aumento delle disuguaglianze, sia tra Paesi avanzati e Paesi in via di sviluppo, sia all’interno dei Paesi industrializzati. Alla crescente ricchezza economica resa possibile dai processi descritti si accompagna una crescita della povertà relativa» (Compendio della dottrina sociale della Chiesa n.362).
Così avviene che, nel prosieguo del processo di riunificazione, un’ultima, importante operazione si rivelerà disastrosa, perché condotta, contrariamente alle logiche dell’economia sociale di mercato, con un impulso ideologico ultraliberista: quello di privatizzare tutto quello che c’era dell’economia della Ddr.
Un anticomunismo miope accecò evidentemente chi doveva gestire la Treuhand, il contenitore in cui erano state inserite 7.894 imprese tedesche orientali che impiegavano quattro milioni di lavoratori, il 40% della forza lavoro della Ddr.
Non tutto era da buttare, ma quasi tutto fu spezzettato, liquidato e distrutto, facendo lievitare i tassi di disoccupazione a livelli mostruosi. Fu un chiaro disastro politico provocato da un furore economico liberista che generò nella parte orientale del Paese l’idea di un’«annessione», di un gesto ostile, prevaricatore e colonizzatore.
Un disastro politico di cui la Germania paga, ancora oggi, le conseguenze. Il 71% dei tedeschi che vivono nella Germania dell’est, a più di 25 anni dalla riunificazione, pensa ancora che siano troppe le differenze tra tedeschi dell’est e dell’ovest. Il 34% degli Ossies – ex tedeschi dell’Est – afferma, addirittura, che i Wessis – ex tedeschi dell’Ovest – sono arroganti e distanti dai loro problemi. D’altronde questa differenza risulta chiara anche da altri indicatori. La forza economica dei land orientali resta inferiore di circa un terzo rispetto all’ovest. Il potere d’acquisto più robusto rimane nelle mani degli abitanti dell’ovest. Il divario tra gettiti fiscali resta profondo – la diversa tassazione applicata tra est e ovest dovrebbe finire entro il 2018 – e le pensioni tra Ossies e Wessis saranno equiparate solamente nel 2025.
La capitale Berlino è l’espressione massima di questa contraddizione. La disoccupazione è più alta nei quartieri dell’est che in quelli dell’ovest (11,8% contro 6%); e, anche se Berlino si avvicina alla media nazionale di reddito pro capite annuo, con 29.153 euro, in realtà questo è, ancora oggi, distribuito in maniera non uniforme tra gli abitanti un tempo separati dal muro che divideva le «due Germanie». La ragione della attuale situazione di inaspettata precarietà politica tedesca e della pesante sconfitta dei partiti tradizionali, Cdu e Spd, alle ultime elezioni politiche dello scorso anno, affonda le sue radici anche in queste disparità tra le due Germanie.
Un caso, emblematico che merita di essere citato per la sua palese iniquità, è emerso in occasione del rinnovo dei contratti di lavoro dei metalmeccanici tedeschi. È diventato di dominio pubblico il fatto che tra la Germania dell’est e quella dell’ovest resta ancora, a oggi, un divario strutturale che vede i metalmeccanici dell’ovest effettuare 35 ore lavorative mentre i colleghi dell’est, anche dentro la medesima azienda, ne lavorano 38. Una contraddizione davvero sconcertante e inaspettata in quello che era il Paese dell’altro capitalismo: il buon «capitalismo renano».
E, su quest’ultimo punto, il distacco dall’economia sociale di mercato e dalla Dottrina sociale della Chiesa è più che profondo: «La remunerazione è lo strumento più importante per realizzare la giustizia nei rapporti di lavoro. Il giusto salario è il frutto legittimo del lavoro; commette grave ingiustizia chi lo rifiuta o non lo dà a tempo debito e in equa proporzione al lavoro svolto…il semplice accordo tra lavoratore e datore di lavoro non basta per qualificare giusta la remunerazione concordata: la giustizia naturale è anteriore e superiore alla libertà del contratto» (Compendio della Dottrina sociale della Chiesa n. 302).
(www.lastampa.it, 26.02.2018)