*La crisi economica e sociale provocata dal Covid accelera la necessità di rivedere i nostri modelli di sviluppo, a partire dall’organizzazione del lavoro. ReS intende alimentare il dibattito intorno alle forme di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, sia come modello per rilanciare il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte delle comunità – civili e lavorative – nella quali si trovano a vivere, sia come viatico per individuare modelli di governance e crescita socialmente e ambientalmente sostenibili. Un dibattito, dunque, intorno alla democrazia economica, a partire dalle parole del neo-segretario PD, Enrico Letta, e da questo articolo di Pier Paolo Baretta, cui seguiranno contributi e interviste di studiosi, giuslavoristi, sindacalisti e politici.
Tra le molte sfide che il post pandemia ci consegna, quella della riorganizzazione del modello economico e sociale è tra le più complesse e affascinanti.
Con la crisi del 2008, si ebbe la percezione della fragilità di un’idea di crescita continua e irreversibile, alla quale si erano affidate le ideologie moderne, in conflitto tra loro: l’una, quella liberista, per assecondare lo sviluppo e il mercato senza porvi ostacoli; l’altra, quella marxista, per orientare la crescita verso una sua più equa distribuzione sociale, anche attraverso il superamento della proprietà dei mezzi di produzione.
Ma, la novità che emerse con la crisi fu per entrambe le parti sconvolgente. Fu, infatti, subito evidente che la questione non si riassumeva nel conflitto sui fini e i metodi dello sviluppo, bensì che era lo sviluppo stesso a potersi interrompere, lasciando entrambi i contendenti senza l’oggetto del conflitto.
La natura di quella crisi intaccò anche la teoria economica dei “cicli”; per la quale potevano esistere delle battute di arresto, ma provvisorie; destinate, poi, a venire assorbite in una crescita ancora più considerevole.
La presa di coscienza di questa rottura fu immediata e generalizzata. La tesi che da quella crisi se ne sarebbe usciti diversi si diffuse rapidamente. Si mise anche mano a un lavoro di revisione delle regole che portò ad alcune riforme. Ma, nonostante questo, mancò in Europa una politica in grado di assumere “l’austerità” come un’opportunità per ripensare il modello di crescita e di consumi, ma anche di riforme. Lo prova la fredda accoglienza che, nel 2011, la politica italiana dedicò alla dura lettera di Draghi e Trichet. Venne meno anche la volontà di condividere una politica di solidarietà, di sostegno reciproco, quale ci si poteva aspettare dall’Europa sociale: ricordiamo bene il caso Grecia e l’accesa discussione sull’Europa a due velocità. In questo contesto, il bisogno di cancellare anche il ricordo delle difficoltà attraversate, fece sì che si affidasse la ripresa ai consumi, sostenuti da un individualismo esasperato, più che dagli investimenti, dalle riforme e dalla solidarietà comunitaria. Si perse un’occasione.
La pandemia ha riproposto, addirittura più crudamente, il problema. Anche oggi sentiamo ripetere che niente sarà più come prima, che ne usciremo diversi. La profondità della crisi indotta dal Covid 19 ha bisogno di nuove risposte che evitino di perdere anche stavolta la ‘drammatica’ opportunità che ci viene offerta…
La pandemia ci consegna una struttura produttiva frantumata: con settori che spariranno e altri che si irrobustiranno, con consumi che cambieranno e con rapporti economici tra le diverse aree del mondo che subiranno modifiche ancora tutte da scoprire. Sul piano sociale assistiamo già a un aumento delle disuguaglianze e a rapide e impreviste trasformazioni di status economico. Erano questioni già ben presenti, ma che il virus ha portato all’ennesima potenza e ad alcuni tratti di irreversibilità. La diffusione del virus per contatto e la protezione immediata da esso per distanziamento, in una società sempre più interconnessa, hanno cambiato la posta in gioco. Insomma, pensare di continuare a produrre e tornare a consumare come prima significa non aver colto la lezione essenziale di questa tragedia globale: nessuno si salva davvero da solo, ma ci si salva solo se si cambia.
Saremo in grado di fare il salto di qualità necessario? Molti sono i segnali positivi che vanno rafforzati. La coscienza di questa necessità si diffonde tra le imprese e i lavoratori; la stessa politica avverte questa responsabilità. Inoltre, oggi, siamo stimolati a prendere più sul serio di allora la questione della trasformazione dei modelli economici, perché si aggiunge alla crisi economica e sociale la coscienza di quella ambientale. L’insieme dei tre aspetti di questa crisi costituiscono un unico problema. I modelli di produzione fondati sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e la dimensione globale della domanda di benessere, necessitano di forme di produzione rispettose del creato, di logiche di accumulazione e redistribuzione inclusive e solidali. È questo il filo conduttore dell’insegnamento che papa Francesco propone.
C’è una definizione che ben raccoglie questa prospettiva: democrazia economica.
La democrazia economica è uno degli sviluppi della democrazia politica, forse il suo naturale completamento. Possiamo dire che, nella complessa modernità globale, e a maggior ragione dopo l’esperienza di questo anno, non esiste la possibilità che la democrazia politica si affermi senza completarsi nella democrazia economica. Dobbiamo dedicare, dunque, a questa prospettiva, lo stesso impegno, la stessa passione, le stesse energie che sono state impegnate nell’affermazione della democrazia politica.
Ma, come per la democrazia politica, il presupposto è la partecipazione dei cittadini alle sorti della loro comunità, così è per la democrazia economica. Non cadiamo nel tranello concettuale: non si tratta di mettere in discussione la proprietà privata – nessun equivoco collettivista! – né di annullare le diverse responsabilità nella gestione dei mezzi di produzione; ma, proprio come nella democrazia politica, si tratta di concepire e praticare i diritti e la partecipazione di tutti i soggetti diversamente coinvolti nei destini del processo economico.
Il che pone due problemi: uno, di impostazione e, l’altro, organizzativo. Il primo: la democrazia economica e la partecipazione non sterilizzano il conflitto, che è appunto, il sale della democrazia, ma sono alternative all’antagonismo. Gli interessi, cioè, sono diversi, ma il fine è condiviso. Anche qui si vedono le analogie con la democrazia politica. Il lessico “avversario” al posto di “nemico” spiega bene il punto!
Il secondo: le forme e i modi con i quali si realizza la democrazia economica e con i quali si applica la partecipazione. L’esperienza più compiuta è quella tedesca, ma ha il limite dell’obbligatorietà che non è, a mio avviso, applicabile in Italia. Meglio affidarsi ai due modelli previsti: monistico o dualistico, superando quello tradizionale e lasciando libertà di scelta su qual è meglio adottare.
In questa prospettiva, è opportuno coinvolgere, con forme adeguate, l’insieme degli stakeholders che costituiscono “l’ambiente” nel quale opera l’impresa.
La partecipazione può essere accompagnata o meno dall’azionariato. Su questo punto si è recentemente e opportunamente aperto un dibattito, a seguito delle affermazioni di Enrico Letta che, nel suo discorso di insediamento alla guida del Partito Democratico, ha lanciato il tema della partecipazione azionaria dei dipendenti. Finalmente il tema della democrazia economica entra in maniera esplicita, sia pure da questo spiraglio, nell’agenda della politica, ed in particolare del più importante partito progressista e riformista del nostro Paese. Facciamo in modo che questa apertura si consolidi fino a prevedere una legislazione di sostegno alla, speriamo diffusa, pratica negoziale. Si tratta, infatti, di un’occasione anche per i Sindacati che devono dare vita a nuove forme della rappresentanza e per le imprese che devono rapidamente trovare un percorso competitivo più all’altezza delle sfide del futuro.