Prosegue l’approfondimento di Riformismo e Solidarietà sul tema della democrazia economica, aperto dall’articolo di Pier Paolo Baretta. Di seguito l’intervista di Vanni Petrelli a Tiziano Treu, presidente del Cnel e componente del comitato scientifico di ReS.
Il tema della democrazia economica sembra abbia conquistato un posto importante nell’agenda politica. Lei ritiene che su questo aspetto siano maturi i tempi per un salto di qualità del mondo del lavoro?
Io credo che sia la volta buona per riprendere molte cose, perché la democrazia economica non si fa con un solo atto. Ci troviamo di fronte a una buona opportunità: mettere in moto un nuovo modello di crescita, passare all’economia verde in modo drastico, avere una digitalizzazione totale, sono già un modo per cambiare l’economia sulla spinta di un forte impulso di partecipazione civica. Al di là delle formule specifiche, azionariato o cogestione, questa è una occasione preziosa, direi che ce la possiamo fare. Fino ad ora il tema della democrazia economica come tale non è mai stato considerato, salvo qualche scritto di qualche personaggio più o meno illuminato. Questo tema, anche nelle sue declinazioni specifiche, è sempre stato considerato un tabù per motivi sostanzialmente ideologici.
Da quale parte sono arrivate la maggiori resistenze? Politica? Confindustria? Sindacato?
Le resistenze le abbiamo trovate dappertutto, abbiamo avuto anche uno scontro ideologico nel sindacato. E le imprese italiane sono state per lungo tempo molto reazionarie. Questo ha fatto sì che tutti i temi legati al modello economico siano rimasti un dibattito tra pochi affezionati. Noi abbiamo 60 anni di estraneità per motivi ideologici rispetto a questi temi, se si esclude la Cisl, già con Carniti, e qualche esponente del socialismo democratico. Ma gli stessi comunisti non avevano la stessa idea. E l’articolo della Costituzione che ne parla è stato letteralmente gettato alle ortiche. Ma ora veniamo fuori da una ondata liberista che ci ha avvelenati e da due crisi, quella del 2008 e questa del Covid, dalla quale speriamo di uscirne presto: la nuova economia andrà avanti solo perché è partecipativa. Abbiamo una chance importante, e l’aiuto dell’Europa è fondamentale.
A proposito di Ue, se l’Italia avesse recepito tutte le indicazioni sul tema della partecipazione forse oggi ci sarebbe un’altra situazione.
La direttiva sulla partecipazione è stata completamente ignorata. Abbiamo fatto un accordo e un decreto applicativo della direttiva sulla partecipazione dei lavoratori nell’impresa, ma alla fine non è andata in porto per l’opposizione di Confindustria e di una parte della Cgil. Vorrei ricordare che il primo documento che Cgil, Cisl, Uil hanno scritto in modo chiaro sul tema è di soli tre anni fa, il “Patto della Fabbrica”. Quel documento ha segnato il superamento ideologico da parte di tutto il sindacato. Tra gli imprenditori noto ancora un po’ di resistenza, ma grazie al Patto qualche apertura significativa c’è stata anche in Confindustria.
In Italia abbiamo una situazione davvero anomala, per cui ai modelli di partecipazione nel pubblico non corrispondono quelli nel privato. Tutte le esperienze di bilateralità, la stessa partecipazione dei lavoratori negli organismi delle istituzioni pubbliche, penso al Cnel, all’Inail, all’Inps, non dovrebbero favorire la creazione di uno schema simile anche nelle aziende?
È una ‘dissociazione’ tutta italiana, un comportamento schizofrenico. È il frutto di un ragionamento sbagliato: le imprese sono nemiche di questa ideologia, e quindi non si può partecipare alla loro gestione. Le istituzioni sono amiche, sono “clientelari”, e ci siamo dentro. È pur vero che tanti studi ci dicono che il bilancio della partecipazione nelle istituzioni non è che sia molto buono; penso ad alcune istituzioni del mercato del lavoro, per non parlare delle banche partecipate. Ma ora anche in questi settori arrivano segnali di rinnovamento. L’area degli Enti bilaterali, poi, anche se andrebbe sfoltita e ammodernata, è un settore potenzialmente molto interessante, si è riusciti a porre in essere una sinergia molto proficua per quanto riguarda le misure di welfare. Anche perché bassa produttività e bassa natalità ci uccidono. La collaborazione nel welfare, nei servizi, è fondamentale, va nella direzione della qualità della crescita.
Torniamo alla partecipazione dei lavoratori: come evitare che vengano coinvolti dalle imprese solo per far digerire decisioni pesanti, come accade in molti casi, e non invece per definire insieme una prospettiva, una modalità di azione? Lei ritiene che sia sufficiente l’autonomia delle parti sociali, e quindi la sola contrattazione, oppure è indispensabile il supporto della legislazione, una legge ad hoc?
Vedo davvero con speranza a queste forme di partecipazione organizzativa nelle aziende innovative. È un modo per dimostrare che la partecipazione ci consente di ottenere anche un risultato produttivistico, l’aumento della produttività. Ribadisco che la partecipazione deve nascere dal contratto, ma la legge sicuramente aiuta. È pur vero che la contrattazione da sola ha dimostrato di essere vitale, ma fa fatica. Oggi conosciamo esperienze di partecipazione organizzativa anche diretta dei lavoratori: avviene in alcune aziende innovative, in Emilia, ma non solo. È una esperienza di grande valore, bisognerebbe che adesso il legislatore, come ho proposto in passato, riconosca a queste forme anche un po’ di potere. E quindi non solo la partecipazione nei consigli di sorveglianza, ma la copartecipazione e la cogestione sancite per legge nella organizzazione del lavoro e anche della produzione. Insomma, una legislazione di sostegno di seconda generazione che noi non abbiamo mai avuto.
Le innovazioni che stanno investendo il mondo del lavoro come si conciliano con queste forme di democrazia economica? Sono un ostacolo o, viceversa, una opportunità da cogliere?
A livello europeo è stato sottoscritto un Accordo Quadro sul tema della digitalizzazione del lavoro. Ritengo che si tratti di una nuova frontiera molto interessante: se avremo una impresa gestita dall’algoritmo, la partecipazione dovrò essere rivolta verso il cuore stesso di questa nuova intesa. Landini ha dichiarato che è necessario contrattare l’algoritmo. Per me, invece, bisogna partecipare alla logica con cui l’intelligenza artificiale e gli algoritmi vengono costruiti. Se non mettiamo il naso lì, siamo finiti. È bene quindi costruire insieme la logica che sta alla base degli algoritmi, perché se non la sappiamo controllare sarà un bel problema. Capire e controllare la logica è proprio quello che sta facendo l’Unione europea. Nell’Accordo di cui parlavo e nella proposta di regolamento si dice che in tutte le applicazioni dell’intelligenza artificiale questi meccanismi digitali devono essere sotto il controllo umano. Bisogna ‘mettere il naso’ nell’algoritmo attraverso forme di partecipazione anticipata, è questa la nuova frontiera del lavoro e della partecipazione, e quindi dell’economia. Una economia digitalizzata avrà meccanismi di controllo che se non vengono governati con la partecipazione rischiano davvero di essere antidemocratici.
Alcune aziende offrono la possibilità ai propri lavoratori di diventare azionisti. È una buona prassi, o c’è il rischio che il lavoratore venga ‘catturato’ nelle logiche dell’impresa?
Per ora il problema non si pone, perché l’azionariato dei lavoratori è davvero poco diffuso. Se questo fenomeno diventasse consistente, qualcuno potrebbe obiettare che la partecipazione azionaria è in realtà un ‘piatto di lenticchie’ per comprare i lavoratori. La soluzione sta nel non ridurre l’azionariato alla sola partecipazione al capitale, ma fare in modo che diventi uno strumento gestito collettivamente, e quindi non individualmente. Allora sì che si rivelerà un modo, per i lavoratori, per avere più voce in capitolo nell’impresa.