Non solo Jobs Act. Al cuore della grande trasformazione del lavoro c’è il sistema di relazioni industriali perché il vero adattamento alle sfide economiche e sociali si misura necessariamente nei settori produttivi, nei territori e nelle singole aziende dove la legge dello Stato, per definizione generale e astratta, può ben poco. È per questa ragione che preoccupa non poco lo stallo nel rinnovo di uno dei contratti collettivi più importanti, quello del settore metalmeccanico, che coinvolge quasi 2 milioni di lavoratori.
Lo sciopero unitario proclamato per il prossimo 20 aprile da Fiom, Fim, Uilm è sintomo di un muro contro muro che non aiuta i lavoratori, ma neppure le imprese a superare la lunga crisi che ha devastato il settore come capita in genere solo dopo una guerra di rilevanza mondiale. Tra il 2007 e il 2014 sono infatti andati perduti oltre 250mila posti di lavoro e la produzione del settore è calata di un terzo. Sul fronte della produttività questa è aumentata dello 0,9%, poca cosa se paragonata a un aumento del costo del lavoro del 23,1% e del Clup (costo del lavoro per unità prodotta) del 22%. Tecnicismi a parte, significa che una ora di lavoro costa oggi a una impresa meccanica oltre un quinto e poco meno di un quarto in più rispetto al 2007, e se la produzione non aumenta è chiaro che si tratta di un incremento economicamente non sostenibile sia sul breve che sul lungo periodo.
Basta questo scenario, che ha conseguenze quotidiane sulla vita di lavoratori e imprese e che decide ogni giorno della chiusura o meno di stabilimenti, per capire che la logica del muro contro muro non giova a nessuno. Che le vecchie regole non vadano più bene e che serva un vero cambio di rotta, ben oltre il semplice rinnovo di un testo contrattuale, sono i dati di realtà a dircelo. E che regole nuove non possano non venire dalle stesse parti sociali chiamate ad applicarle è un dato di esperienza.
A questo servono, del resto, le relazioni industriali: a fornire in via sussidiaria e condivisa risposte sostenibili ai problemi del lavoro. Quel che forse è meno chiaro a molti è che, in questa fase dello sviluppo economico, ci troviamo in una situazione realmente straordinaria. Non si tratta infatti di fronteggiare una crisi e un ciclo economico negativo passeggero. Siamo piuttosto di fronte a profonde trasformazioni geopolitiche e demografiche che si sommano a innovazioni tecnologiche che stanno rapidamente espandendo il ruolo della automazione e della digitalizzazione all’interno delle fabbriche.
Con un rischio sempre può probabile di tornare lentamente ai livelli produttivi pre-crisi senza un parallelo recupero dei posti di lavoro, sostituiti da macchinari più moderni che oggi svolgono le mansioni esecutive e routinarie che prima spettavano agli operai. In questo contesto, per molti versi drammatico, sono necessarie posizioni davvero nuove e coraggiose, capaci di invertire le logiche del passato e cambiare mentalità di gestione delle relazioni industriali. Non senza sacrifici, non senza generare antipatie e impopolarità, sia sul fronte imprenditoriale sia su quello sindacale.
Ma si tratta di una caratteristica costante in tutti i seri tentativi di uscita da fasi critiche, che mai possono giocarsi sul breve termine e che richiedono piuttosto il contributo di persone di buona volontà che si facciano carico di scelte di lungo periodo in sintonia col cambiamento di una epoca, che è poi niente altro che il radicale mutamento del modo di fare impresa e anche di lavorare. In tale prospettiva, crediamo che il fronte dei sacrifici e degli scambi reciproci possa essere quello del trinomio produttività-formazione-partecipazione.
Spesso si considera la produttività come l’unico oggetto di contesa tra le parti, non come un elemento di scambio e partecipazione. Al contrario oggi, in uno scenario professionalmente mutevole, si tratta di tre aspetti inscindibili. La disponibilità ad aumenti salariali legati alla produttività da parte dei lavoratori è realistica solo se si inizia un vero cammino verso modelli partecipativi di gestione della impresa da un lato, e dall’altro la promessa che l’impresa fornisca la formazione necessaria per far sì che l’aumento di produttività non sia dato unicamente dall’aumento delle attività e del carico di lavoro, ma da una vera innovazione dei processi produttivi e dei mestieri necessari a governare il cambiamento in atto.
Formazione che è anche una tutela rispetto al rischio di disoccupazione tecnologica che il settore corre e che può essere combattuto con investimenti per il welfare della persona e la riqualificazione dei lavoratori. Una strada possibile, come dimostra l’innovativo accordo tra la Fim-Cisl e l’Associazione Quadri Fiat che apre la strada a una rappresentanza della fabbrica moderna e integrata, certamente più interessante di un commento all’ennesimo sciopero.
Questa può essere la chiave di un sistema moderno di relazioni industriali nella manifattura, che possa diventare esempio e stella polare per altri settori produttivi che vivono la stessa crisi in un contesto di serrata competizione globale dove, anche nei contesti più avanzati, non sempre esiste il contratto nazionale di lavoro (Usa, Giappone, Regno Unito, Polonia…) o, comunque, un duplice livello di contrattazione prima nazionale e poi aziendale. Per far questo occorre rimboccarsi le maniche, restare al tavolo e non spostare il luogo della contesa nella piazza, dove il dialogo non è mai possibile. C’è in gioco molto di più di uno scontro di posizioni, c’è in gioco il lavoro e il suo futuro nel nostro Paese.
(www.avvenire.it, 31-03.2016)