Mauro Del Bue – La cogestione obiettivo socialista

Ben trentotto anni orsono il Psi pubblicò un quaderno di Mondoperaio, allora diretto da Federico Coen, che conteneva scritti di economisti, giuslavoristi e sindacalisti sul tema della democrazia industriale. Il primo intervento fu scritto da Gino Giugni, che sette anni prima aveva sfornato, dopo la morte di Giacomo Brodolini, lo statuto dei lavoratori. Con accenni di eresia e spirito da autentico riformista Giugni pose con forza la questione della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Anche allora si discusse del modello tedesco che durava dal 1951 e si prese in esame anche il progetto del Labour inglese del 1967, nonché quello, decisamente ancora più avanzato, della socialdemocrazia danese che espropriava una quota di capitale. Anche allora dunque si studiarono modello tedesco e modello danese. Sembra un ritornello…

Passano gli anni, anzi i decenni, e siamo daccapo. Dovremmo dunque almeno porci la domanda sulla mancanza assoluta della realizzazione, in salsa tedesca o danese, o magari italiana, di un obiettivo di questa rilevanza sociale. Ci saranno stati motivi diversi. Ne prendo in esame solo uno. E cioè l’eccessiva ideologizzazione della lotta politica e sindacale in Italia. Scrisse Federico Mancini a tale proposito nel 1977: “Un movimento sindacale di questo tipo (cioè ideologico, italiano) non scriverebbe mai che “la cogestione integra gli operai nell’impresa”, come hanno fatto i sindacati tedeschi”. La cogestione significa in fondo accettare il sistema, non ritenere un dogma la lotta di classe, attribuire al sindacato una natura non prevalentemente di lotta. Così altri hanno compiuto passi rilevanti in questa direzione e noi siamo rimasti fermi, ma coerenti con la nostra Bibbia del sistema che non va riformato, ma distrutto. Anche dopo l’ottantanove, dopo la fine del comunismo e di ideologie palingenetiche, sono rimasti nella sinistra e soprattuto nel sindacato molti, troppi conservatorismi. Lotta dura senza paura e poi tutti a casa, senza lavoro.

Oggi Landini, la Camusso, lo stesso Barbagallo, che giustamente contestano certi atteggiamenti di chiusura al dialogo da parte del governo, continuano a non porre come priorità della loro azione l’obiettivo della cogestione. Che al massimo diventa un optional, un’incidentale, un “e inoltre”. Non certo un argomento fondamentale di rivendicazione. La questione dei diritti dei lavoratori pare per loro ridursi in un contraddittorio fuoco di fiamme sulla modifica dell’articolo 18. Contraddittorio perché si difende qualcosa che si ha. E nessuno tocca oggi l’articolo 18, nella vecchia versione, per i lavoratori. Lo si modifica per i nuovi assunti a tempo indeterminato attraverso i cosiddetti contratti unici a tutele crescenti. Unici perché varranno sia per i lavoratori delle aziende con più di 15 dipendenti, sia per le aziende con meno di quindici dipendenti. Non trovo, in questo, motivo di scandalo. Se la nuova versione, ma lo verificheremo, produrrà qualche occupato in più, anche coloro che si oppongono a questa riforma cambieranno idea.

Dobbiamo essere chiari. È la disoccupazione la priorità del nostro tempo. Se quasi un giovane su due oggi non solo non ha alcun articolo 18, ma non ha neanche un lavoro precario e ottantamila ragazzi italiani ogni anno varcano i nostri confini per cercare lavoro all’estero, non possiamo guardare da un’altra parte. Se leggiamo dati e previsioni per l’Italia e per l’Europa, difficilmente arriviamo a dedurre che il lavoro tornerà come prima. Come prima della crisi del 2008, come prima della globalizzazione economica, come prima del commercio libero, come prima della rivoluzione tecnologica. Saremmo stolti a programmare un impossibile ritorno al passato. Il lavoro, come l’ha conosciuto la mia generazione, un lavoro dipendente valido per la vita, non c’è più. La certificazione dell’inamovibilità dal posto di lavoro rischia, da un lato, di divenire fallace illusione, dall’altro di proporsi, come ha dichiarato Pietro Ichino, come potenziale causa, essa stessa, di precariato. E questo, secondo me, soprattutto nel settore pubblico.

Dare la certezza del lavoro a tutti i dipendenti statali ha spesso provocato disinteresse al lavoro, quando non episodi di vero e proprio assenteismo ingiustificato. Anche per questo non si capisce perché questi futuri lavoratori non debbano trovare uguale trattamento dei futuri lavoratori privati nel nuovo diritto del lavoro chiamato Jobs act. La protezione dell’Aspi fino a 24 mesi è una prima risposta al nuovo regime. Ma non può bastare e si torna all’inizio. A chi diamo il potere di decidere, ad esempio, i licenziamenti economici che oggi non danno mai, neanche se ingiustificati, il diritto al reintegro? Io penso che oggi, soprattuto per questo, occorra una nuova democrazia industriale, sia pubblica sia privata. Una partecipazione e un controllo dei lavoratori nelle scelte aziendali.

Nelle forme che si dovrebbero studiare, io ad esempio ritengo che l’elezione diretta dei lavoratori sia ancora il metodo più democratico, è indispensabile rilanciare la cogestione (Landini, per paura di eccessivo inquinamento ideologico l’ha voluta definire in Tv “codeterminazione”, come fosse ancora un tabù “gestire” un’impresa insieme, lavoratori e imprenditori). È chiaro che la possibilità di operare decisioni anche sulla forza lavoro senza i vincoli del passato, porta a definire anche nuove forme di democrazia dell’impresa. Sempre più saranno da privilegiare i contratti aziendali rispetto a quelli collettivi. Se vi aggiungiamo il tema della cogestione tra imprenditori e lavoratori allora il sindacato certo perderà parte del suo peso tradizionale di rappresentanza, come corpo intermedio. Questo mi pare il problema di fondo. Ma un sindacato e una sinistra che marciano contro la storia, per difendere solo loro stessi, che contributo possono dare ai lavoratori e soprattutto a coloro che il lavoro non ce l’hanno?

(28 dicembre 2014)

Tratto dal sito www.avantionline.it

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