La proposta di legge di iniziativa popolare della Cisl sulla “Partecipazione al Lavoro”, presentata dal suo segretario generale Luigi Sbarra, per l’applicazione dell’articolo 46 della Costituzione, che prevede il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende, ha il merito di riaprire il dibattito sulle relazioni industriali in Italia, in una prospettiva europea.
Una proposta che riguarda anche la partecipazione dei lavoratori ai processi di accumulazione, secondo una linea già indicata dal sindacato cattolico con il c.d. “Risparmio contrattuale” proposto da Bruno Storti nel 1961 e il Fondo di solidarietà sostenuto da Pierre Carniti nel 1980.
Il nostro Paese è stato caratterizzato a lungo dal prevalere di modelli sindacali fondati sul conflitto-contratto, con un ostracismo ideologico nei confronti di esperienze straniere partecipative come quella della cogestione in Germania, che negli anni ’70 del ‘900 furono alla base delle rivendicazioni sindacali in Europa per la democrazia economica ed industriale, mentre in Italia si proponevano modelli diversi: è il caso del Piano di impresa della Cgil, guidata da Luciano Lama, elaborato da Bruno Trentin.
Solo ai primi degli anni ’80, la Uil, con la proposta di uno dei leader storici del sindacalismo italiano, Giorgio Benvenuto, all’8° congresso nazionale a Roma nel 1981, ruppe il tabù sulla partecipazione dei lavoratori, proponendo un intervento legislativo a sostegno dei diritti di informazione in azienda.
Il tema è quello della democrazia industriale, favorite dalle politiche di patto sociale dei governi socialdemocratici e dall’evoluzione del quadro normativo comunitario, con il modello cogestionario che ha in Germania il suo paradigma, le cui basi giuridiche ed economiche sono da ricercare nella Costituzione di Weimar del 1920.
La prima esperienza risale al 1951, con la legge sulla Mitbestimmung nelle imprese carbosiderurgiche, in cui i rappresentati dei lavoratori partecipano pariteticamente all’organo di vigilanza, distinto da quello di gestione. Tale legge, imperniata su di un modello duale di governance aziendale, é stato esteso alle altre aziende tedesche con più di 300 dipendenti nel 1976 (oggi il limite è di 200), ma senza la pariteticità dei rappresentanti dei lavoratori nel consiglio di sorveglianza. In materia di partecipazione, a partire dal 1970, si sono succeduti interventi normativi anche livello comunitario: la proposta di “Regolamento di Statuto della Società per azioni europea” presentata all’epoca dalla Commissione della Cee; la V Direttiva della Cee sulla partecipazione dei lavoratori agli organi di controllo societari in ambito comunitario del 1972 sul modello della cogestione tedesca.
Nel 1975 viene approvata la prima modifica dello Statuto di Società per azioni europea e nel 1980 la direttiva Vredeling sulle procedure di informazione e consultazione dei lavoratori a livello d’impresa e di gruppi multinazionali; questa direttiva ha costituito l’ispirazione della proposta di creazione dei Comitati Aziendali Europei nelle imprese o gruppi di imprese di dimensioni comunitarie del dicembre 1990.
Nel settembre del 1994 viene approvata in via definitiva la direttiva sulla costituzione dei Comitati Europei d’Impresa, che stabilisce un diritto d’informazione e di consultazione nelle aziende transnazionali di tutti i Paesi dell’Unione europea. La consultazione prevista è molto di più di un semplice confronto tra le parti, capitale e lavoro.
Lo scopo della direttiva infatti, è consentire ai lavoratori di influenzare le decisioni strategiche delle imprese, secondo un modello che potrebbe consentire a lavoratori e sindacati italiani di avere preventivamente titolo per pronunciarsi, ad esempio, in casi come quelli di Telecom ed Ita.
Una ipotesi per un intervento legislativo di attuazione dell’art. 46 della Costituzione, potrebbe essere l’istituto dei comitati misti realizzati da Adriano Olivetti nell’azienda di Ivrea nei trascorsi anni ‘50, ripresi nella recente proposta comunitaria del leader della Confial, Benedetto Di Iacovo.