Nei commenti di Cisl, Uil (meno della Cgil) e in quelli di Confindustria è stata data notevole enfasi ai profili di partecipazione in azienda, per quanto riguarda le relazioni industriali, contenuti nell’ipotesi di rinnovo del contratto nazionale di lavoro dei metalmeccanici.
In particolare nell’ipotesi di CCNL si fa riferimento alla istituzione di un “Comitato consultivo di partecipazione” nelle aziende con oltre 1500 dipendenti e con almeno due unità produttive con più di 300 dipendenti o almeno una con più di 500 dipendenti. Il modello è quello nel solco dell’esperienza dei comitati misti paritetici, dall’Olivetti alla Bassetti sino al “Protocollo Iri”, ben lontani, quindi, dai sistemi di democrazia industriale, che hanno nella cogestione tedesca il paradigma e in cui i lavoratori siedono (pariteticamente nel settore carbo-siderurgico) nei comitati di vigilanza delle società e, quindi, sono inseriti istituzionalmente negli organi d’impresa.
La “partecipazione all’italiana” delineata dall’ipotesi di rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici semmai, si muove, timidamente, nel quadro di quei Comitati aziendali europei, organismi sovranazionali per l’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese multinazionali, istituti dalla direttiva dell’Unione Europea 94/45 CE del 22 settembre 1994 e recepita in Italia mediante accordo interconfederale.
E se si volesse individuarne le ragioni storico-giuridiche, il riferimento non può che essere all’art. 46 della Costituzione, secondo cui “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ”. In sede di Assemblea costituente, sul tema si confrontarono fondamentalmente due tesi: quella del socialista Rodolfo Morandi, che si sviluppavano nell’ambito delle teorie marxiste sulla “democrazia progressiva”, con un rapporto tra pianificazione economica e controllo operaio e un richiamo all’esperienza della Repubblica di Weimar in Germania, degli “Industrial Working Parties” in Inghilterra e dei “Comités de gestion” in Francia e degli stessi Consigli di gestione nell’Italia liberata; dall’altra le posizioni dei cattolici, Amintore Fanfani in primo luogo con le teorie neo-volontariste, fondate su di una visione collaborativa (e subalterna) dei lavoratori in azienda. L’art. 46, come del resto il 39 e il 40 in materia sindacale, fu un compromesso, in cui prevalse un modello partecipativo “soft” e, comunque, non attuato, a causa della mancata approvazione di una legge da parte del Parlamento. Un dibattito compiutamente ricostruito in un ben noto libro di Piero Craveri, dal titolo “Sindacato e istituzioni nel dopoguerra”.
Si può quindi, affermare che la “via italiana alla partecipazione”, come oggi si delinea anche nel CCNL dei metalmeccanici, ha come dna il modello collaborativo indicato dalla Costituzione, diverso e distinto da quello socialdemocratico, definito nei trascorsi anni ’70 in Europa, dalla V direttiva della Cee, osteggiato in Italia al tempo, per ragioni ideologiche, dai sindacati, tranne la UIL di Giorgio Benvenuto, che sostenne l’ipotesi di una legge di sostegno ai diritti di informazione previsti dai contratti.
(fondazionenenni.wordpress.com, 28.11.2016)