Oggi è indubbio che comanda la legge del pendolo. Il sindacato italiano è sostanzialmente ai margini nelle imprese, estromesso dai principali tavoli di confronto politico e in difficoltà sui rinnovi contrattuali.
A Verona, città con il più basso tasso di disoccupazione, gli industriali nella loro recente assemblea non hanno accennato minimamente alla prossima stagione contrattuale quasi non esistesse il problema. Le proposte e le iniziative del sindacato non fanno audience sui media. Non va meglio a chi si occupa di relazioni industriali in azienda. Sempre più ai margini nella gerarchia. Né alle associazioni datoriali, seppur impegnate a fondo e infine non si può non registrare un scarso interesse mediatico sui temi del lavoro. Dagli 80 euro e fino al Jobs act, passando attraverso il “conta assunzioni” mensile, l’iniziativa è passata nelle mani del Governo che addirittura “minaccia” di intervenire con una legge sulla rappresentanza se, entro la fine dell’anno le parti sociali non troveranno un accordo. Per non parlare della previdenza dove il Presidente dell’Inps, uscendo del suo ruolo, si è sostituito al Governo (ma anche alle parti sociali) presentando proposte di riforma più o meno azzardate. Infine la discussione sui livelli della contrattazione dove ciascuno, ormai, può dire la sua. Forse abbiamo toccato il livello più basso. È del tutto evidente che un modello di relazioni sindacali costruito quasi esclusivamente sui rapporti di forza (reali o mediatici) è dotato di un sismografo che registra immediatamente quando questi si modificano. Innanzitutto si sono modificati nell’impresa e da qui il venire sempre meno della contrattazione aziendale (sia in termini qualitativi che quantitativi) con le successive disdette della contrattazione interna; nella sempre più marcata distanza tra le piattaforme sindacali presentate e il contenuto degli accordi sottoscritti, negli allungamenti dei tempi della contrattazione nazionale e negli equilibri finali che sempre più comprendono la rimessa in discussione dei cosiddetti “diritti acquisiti”. Addirittura c’è anche chi arriva a teorizzare il superamento della contrattazione collettiva. Certo, tutto questo ha ragioni di contesto interno e internazionale precise e non attiene, come sostiene malignamente Ricolfi solo alla qualità dei sindacalisti o degli addetti ai lavori. È ingeneroso e sbagliato. Lama, Di Vittorio, Mortillaro o chiunque altro si troverebbero nelle identiche situazioni dei migliori negoziatori odierni. “Capire il nuovo, guidare il cambiamento” è uno slogan felice però di difficilissima attuazione per chiunque. La legge del pendolo, poi non lascia spazio a nessun ragionamento. Il punto semmai è un altro. È di questo che ha bisogno il Paese? Se la risposta è sì, il discorso è chiuso. Andiamo avanti così. Se, al contrario, ci si dovesse rendere conto che non può essere un “pendolo” a stabilire chi detta le regole del gioco in un dato momento storico dobbiamo riprendere a ragionare insieme. Tutti, a parole, siamo per il cambiamento. Purtroppo auspichiamo quasi sempre quello degli altri. Il nostro è però fondamentale. Un vecchio proverbio arabo recita: “se vuoi vedere pulita la via, comincia dallo zerbino di casa tua”. Credo sia un ottimo consiglio. Innanzitutto non credo che i corpi intermedi possano cambiare da soli, ciascuno per conto proprio. Esiste una simmetria evidente che li collega. Nessuno ha esclusivamente in sé la forza di correggere i propri difetti soprattutto perché alcuni di questi sono comuni e si giustificano proprio perché sono simmetrici. C’è un pezzo di strada che occorrerebbe fare insieme. Tra le organizzazioni datoriali in primo luogo ma anche con le organizzazioni sindacali. Quale Paese abbiamo in mente? Quali pesi e contrappesi politici e sociali pensiamo debbano coesistere? Lasciamo che si affermi una società darwiniana dove c’è chi vince e chi sopravvive come può oppure riflettiamo intorno ad un progetto di società dove le opportunità di partenza sono per tutti e dove esiste un welfare moderno che protegge chi ne ha bisogno? E come deve essere questo welfare? Come è sempre stato o con una maggiore integrazione pubblico/privato? E cosa siamo disposti a mettere di nostro sul tavolo per raggiungere quegli obiettivi? Molte di queste o di altre domande segnano il campo, le regole e la partita che si vuole giocare; soli o insieme. Ma solo affrontandole possiamo immaginare il ruolo delle parti sociali dei prossimi anni che potranno scegliere se collaborare per costruire il futuro o confrontarsi aspramente all’infinito come i “polli di Renzo” di manzoniana memoria. La Politica, nel bene o nel male, sta cercando di ridisegnare nuovi confini a ciò che nel 900 era dato per scontato e collocato da una parte o dall’altra. Equilibri e opportunità cambiano nel mondo e riposizionano ricchezza e povertà, vincoli e opportunità. E questa partita c’è chi ha deciso di giocarla solo in difesa forse sperando che chi oggi da le carte venga mandato presto a casa e tutto torni come prima. Io credo sia un errore. Personalmente “sogno” un percorso diverso. Non contando nulla, posso permettermelo. Sogno l’avvio di una fase costituente di riposizionamento dei corpi intermedi. Renzi ha lanciato Human Technopole Italy 2040 pensando al futuro della ricerca, della tecnologia e delle scienze e alle opportunità per il nostro futuro come Paese. Occorrerebbe avere il coraggio di lanciare un progetto analogo nelle scienze sociali pensando ai nostri figli e al Paese nel quale dovranno vivere. E in questo progetto una parte rilevante dovrebbe essere costruita intorno ai sistemi collaborativi all’interno delle filiere nazionali e internazionali. Ed è solo se le migliori intelligenze sociali del Paese decideranno di mettersi in gioco che si può sperare di venire a capo dei nostri problemi, di superare i rischi di frantumazione del Paese e di contrasto generazionale, di dare un senso e una speranza al mondo del lavoro e dell’impresa. Certo può essere ingenuo pensare che tutto ciò possa avvenire in un Paese che si è ormai acconciato per scontrarsi su tutto sperando così, di non cambiare nulla. Però io ho fiducia che il tempo del cambiamento sta arrivando. Non dobbiamo solo farci cogliere impreparati.
(www.mariosassi.it, 11.11.2015)
il passaggio chiave dell’articolo, pienamente condivisibile, si può trovare nell’invito a “mettersi in gioco”. Invito che le parti sociali non intendono minimamente raccogliere, restando arroccate sulle loro vecchie parole d’ordine e facendo una battaglia di retroguardia a difesa di tutto ciò che è stato e che non è più. Una specie di nostalgia di un futuro uguale al passato.