1. Fordismo, post-fordismo e nuova organizzazione del lavoro
Per quasi tutta la metà del secolo scorso, il modello economico-produttivo dominante è stato quello dell’organizzazione scientifica del lavoro (Scientific Management Organization1) o “taylorismo” al quale è affiancato il paradigma del “fordismo”2.
Questo modello fonda il proprio successo sull’accentramento dei poteri di controllo e gestione, sulla rigida ripartizione di funzioni secondo una gerarchia e regole prestabilite, routine e prassi consolidate per perseguire l’efficienza e la massima produttività con la logica del salario adeguato al rendimento3.
Con il fordismo si apre una nuova fase nell’organizzazione del lavoro in fabbrica: l’automazione, l’introduzione di forme di partecipazione dei lavoratori ai risultati d’azienda, i salari più elevati e la previsione di un orario di lavoro minimo unitamente alla nascita della produzione di massa i quali rompono lo schema organizzativo del periodo precedente4.
Il modello fordista entra in crisi quando si affermano sullo scenario nazionale e internazionale alcuni fattori di complessità e di incertezza a livello competitivo ai quali, conseguentemente, si affianca la nascita di nuove figure professionali e, con essa, una forte diversificazione del lavoro (la c.d. “società dei lavori”)5.
Il capitalismo “maturo” modifica le forme del lavoro aumentando la flessibilità del lavoro a causa di una più accesa competizione globale. Ciò conduce verso una “pluralizzazione del lavoro” per cui la struttura del mercato tende a “frammentarsi”6.
Da un lato, si assiste all’ampliamento delle professioni con frazionamento delle carriere che sono “discontinue”7; dall’altro, si amplifica il disincontro tra domanda e offerta di per l’inadeguatezza dei tradizionali canali di selezione delle risorse umane. Il risvolto più immediato è la deregolazione del mercato del lavoro8.
Il modello fordista, caratterizzato dal forte incremento di produttività del lavoro, da efficace sistema di regolazione delle relazioni industriali e di contenimento del conflitto capitale-lavoro, cede il passo ad altri modelli basati sull’intensificazione della competitività a livello globale, la diversificazione dei prodotti, il cambiamento delle forme di consumismo ed il progressivo abbandono della logica del one best way9.
Nasce da questi elementi il “post-fordismo”10 in cui l’imperativo per la sopravvivenza delle aziende consiste nell’assicurare flessibilità, snellezza e capacità di adattamento al contesto esterno, soggetto a continue variazioni. In questo modello (inizialmente definito “toyotismo”11) muta la logica sottostante alle scelte aziendali (che non è più quella della mera massimizzazione dei profitti e l’orientamento ai volumi) e alle tecniche organizzative (che non è più legata alla rigidità del lavoro)12.
La maggiore competitività dell’azienda dipende, in parte, dalla riduzione dei costi (secondo la logica giapponese dell’eliminazione degli sprechi) e, in parte, dell’adattamento dell’offerta alla domanda secondo una relazione “invertita”13.
Queste trasformazioni hanno avuto un impatto sull’organizzazione del lavoro: la tendenza è stata quella di “de-sizare” le imprese vale a dire abbandonare il paradigma della grande dimensione verso forme organizzative più piccole (“small is better”14) e di creare di reti di imprese, integrate e fortemente orientate all’eccellenza produttiva e alla professionalità15.
La grande impresa capitalistica ha cercato di adattarsi al nuovo scenario decentrando parte della propria catena del valore presso Paesi a basso costo del lavoro, creando imprese di minori dimensioni e localizzandosi in aree meno evolute per sfruttare le economie da agglomerazione16.
Oltre alla riduzione dei costi del lavoro, l’outsourcing ha permesso alle imprese di impiegare forme di lavoro specializzato il quale, unitamente alla diversificazione della domanda e a una maggiore flessibilità del capitale, ha fatto emergere, prima, il modello della “specializzazione flessibile” e, dopo, quello della fabbrica “modulare”, tipico delle grandi companies del settore automobilistico17.
Un punto critico è rappresentato dalla difficile conciliazione tra variabilità della domanda e stabilità del lavoro: il post-fordismo è considerato come «fine dell’egemonia del lavoro salariato»18 verso forme di lavoro autonomo in cui la maggiore elasticità della prestazione lavorativa e delle condizioni di lavoro deriva dalla nascita di nuovi lavori.
La maggiore flessibilità organizzativa ha imposto – oltre al cambiamento “quantitativo” legato alla riduzione della forza lavoro a causa della tecnologia – un cambiamento “qualitativo” legato all’abbattimento delle tutele dei lavoratori19, alla progressiva sostituzione del lavoro atipico al tradizionale posto fisso cui corrispondono, però, forme di alienazione nel lavoro20.
Per altri versi, il post-fordismo è stato definito come «la forma che assume il fordismo dopo la fine dello sviluppo»21 e cioè quale modello caratterizzato da alta intensità di flessibilità volto a recuperare produttività e velocizzare la crescita economica. La flessibilità se, da un lato, tende a indebolire la forza contrattuale del lavoratore22, dall’altro, valorizza il lavoro riducendo le routine legate al contratto a tempo indeterminato.
Ancora, il post-fordismo è stato definito quale «riclassificazione dell’antico conflitto sociale in forma di competizione territoriale»23 per l’assenza di confini tra aziende e lavoratori. La territorialità, se da un lato, comporta benefici in termini di costo del lavoro, dall’altro, può generare disparità di trattamento tra lavoratori interni a un’impresa e lavoratori “prestati” da un’impresa fornitrice24.
Questo fenomeno si è palesato ancor di più con la nascita della “industria 4.0” e la digitalizzazione dell’economia25 in cui l’accelerazione tecnologica, l’automazione e la virtualizzazione della catena del valore se, da un lato, hanno permesso un aumento del sapere e della conoscenza, dall’altro, hanno indotto alla creazione di «pratiche neo-schiavistiche e/o forme di caporalato digitale»26 e l’emersione di lavori discontinui, provocando una “atomizzazione” della prestazione lavorativa e l’invisibilità dei lavoratori27.
Si è passati, dunque, dall’economia di massa – connotata dal lavoro in fabbrica, tipico della seconda rivoluzione industriale, con salari e tutele legate al lavoro subordinato – alla “gig economy”28 in cui i nuovi workers – sulla scia della quarta rivoluzione industriale – prestano l’attività lavorativa anche al di fuori dal luogo di lavoro grazie all’uso di piattaforme digitali in modo frammentato e discontinuo (“globalizzazione della precarietà)29.
2. Il digital work come chiave di volta per lo sviluppo del modello partecipativo?
A fronte delle criticità legate al paradigma post-fordista, con i recenti sviluppi dell’economia, rintracciabili nel passaggio all’era della “condivisione” (sharing economy), sono state gettate le basi per la revisione del modello conflittuale su cui, storicamente, si sono rette le relazioni industriali30.
Invero, il passaggio da una gestione “hard” delle mansioni e dei risultati, tipiche del modello taylorista, al maggior coinvolgimento del lavoratore nella definizione delle politiche aziendali, d’impostazione post-fordista31, rappresenta uno dei temi di progressivo abbandono della logica basata sull’antagonismo su cui, per anni, sono stati impostati i dibattiti in campo giuridico ed economico, con sostituzione della competizione con la cooperazione32.
Con l’avvento della quarta rivoluzione industriale e la nascita dell’economia della conoscenza, uno degli effetti più rilevanti è stato quello di considerare non più la mera manualità delle prestazioni ma l’intellettualità dei lavoratori in termini di competenze e conoscenze (lavoro cognitivo)33.
Non più collaborazione passiva, strettamente legata alle mansioni, bensì partecipazione attiva nella generazione del valore e della sua distribuzione34. Questo fenomeno, noto come “cooperazione intelligente”35, unitamente alla “rivoluzione cognitiva” dell’economia e alla diversa relazione tra capitale e lavoro, deriva dal mutamento del concetto di rischio36.
Storicamente, la giustificazione dell’asimmetria tra potere direttivo e dovere di collaborazione è stata fondata sulla prerogativa esclusiva, dell’imprenditore, di dirigere l’azienda in coerenza al principio di libertà di iniziativa economica privata, anche a causa dei rischi posti a suo carico37.
Oggi, la possibilità di partecipazione dei lavoratori alle vicende d’impresa sembra essere in grado, da un lato, di attenuare gli effetti del disequilibrio in termini di condizioni di lavoro38 e, dall’altro, di modificare l’esercizio del potere direttivo in chiave collaborativa, tenuto conto della “metamorfosi” della subordinazione39.
Si assiste, così, alla coesistenza di due prospettive: la prima, tradizionale, volta a «correggere qualitativamente l’intrinseca asimmetria del rapporto di lavoro salariato» (“partecipazione dei diritti”); la seconda, legata all’approccio dell’Human Resource Management, volta a «sviluppare politiche di gestione delle risorse umane che innovano i criteri tipici di utilizzo del lavoro con il coinvolgimento dei suoi portatori» ( “partecipazione dell’offerta”)40.
Esistono diversi modelli di partecipazione a seconda se l’istituto è utilizzato, in primo luogo, quale strumento “complementare” oppure “sostitutivo” alla contrattazione collettiva41. Si distingue la partecipazione in due tipologie: l’una in cui prevale la sostituzione della rappresentanza del sindacato verso forme di gestione integrata in azienda; l’altra in cui prevale la complementarietà tra contratto collettivo e partecipazione, ognuna delle quali svolge funzioni ed ha compiti differenti e non sovrapposti42.
La partecipazione dei lavoratori in azienda può anche essere “antagonista”, “collaborativa” o “integrativa”, in base al grado di modifica dell’assetto proprietario, “diretta” o “indiretta” a seconda del livello di mediazione delle rappresentanze sindacali43 e “debole” o “forte” in base al grado di formalità dei processi partecipativi44.
Infine, la partecipazione può essere “decisionale” o “economica” a seconda del modo in cui il lavoratore è coinvolto in azienda: la partecipazione economica permette ai lavoratori di partecipare solo ai risultati d’impresa condividendo con il datore-imprenditore il rischio d’impresa45.
La partecipazione decisionale coinvolge i lavoratori in modo organico circa le scelte aziendali da porre in essere e gli obiettivi da realizzare. In base all’intensità con cui si manifesta, la partecipazione decisionale può essere distinta in quattro tipi: “consultazione”, “informazione”, “co-determinazione” e “cogestione”. I primi due tipi di partecipazione esprimono la portata di interessi diversi tra imprese e lavoratori46; l’ultima tipologia rappresenta la massima espressione del coinvolgimento dei lavoratori poiché il frutto comune della relazione capitale-lavoro riguarda le scelte “strategiche” dell’impresa47.
A seconda del “come” la partecipazione evolve è possibile distinguere tra canale “doppio” (rappresentanze sindacali affiancati da un organismo eletto dai lavoratori) o “unico” (rappresentanze aziendali come controparte esclusiva)48.
A seconda del “chi”, vale a dire dei soggetti che partecipano alle decisioni d’azienda, la partecipazione può essere “interna” (con votazione dei lavoratori e loro presenza nell’organo amministrativo nonché con ripartizione dei seggi tra azionisti e rappresentanti lavoratori) o “esterna” (con procedure bilaterali di negoziazione tra rappresentanti dei lavoratori ed impresa)49.
La partecipazione economica può essere distinta in due forme: “azionaria” (profit sharing) o “proprietaria” (ownership sharing)50. A sua volta, la prima forma può essere “esterna” (fondi pensioni complementari) o “interna” (controllo azionario). In questo caso, la partecipazione si realizza mediante strumenti finanziari e simili (azioni di risparmio o ordinarie) sulla base dei diritti attribuiti al lavoratore in assemblea51.
3. Il dibattito italiano
In Italia, il tema della partecipazione dei lavoratori in azienda è stato frutto, per tanti anni, di un dibattito scevro da qualsiasi intervento normativo52; ciò in quanto la gestione aziendale è ancora considerata quale attività solo in apparenza decisa di concerto con i lavoratori. Continua, cioè, a prevalere, nella gerarchia di interessi, l’interesse tipicamente imprenditoriale53.
In passato, sono stati effettuati alcuni tentativi di intervento normativo in materia volti a combinare elementi del modello della cogestione con aspetti della co-determinazione54. Nessuna delle proposte presentate in Parlamento55 è andata a buon fine; l‘unico strumento rimasto a fondamento della democrazia sindacale continua ad essere la contrattazione collettiva cui la legge affida il compito di regolare gli aspetti cardine della disciplina sindacale56.
Il dibattito sulla partecipazione dei lavoratori in azienda è stato riacceso di recente: dopo anni di vuoto legislativo, gli ultimi interventi normativi57 fanno ben sperare circa l’introduzione di uno schema partecipativo nelle relazioni industriali italiane anche tenuto conto della normativa europea58.
Molti paesi europei hanno già adottato modelli partecipativi di tipo economico. Basti pensare a Francia e Germania che, sin dagli inizi del secolo scorso, hanno realizzato forme di partecipazione economica fondate sui piani aziendali di risparmio e sull’azionariato dei dipendenti (anche attraverso il workers buy-out, i pacchetti azionari e i fondi previdenziali)59.
Tra le ragioni che hanno spinto i vari paesi all’adozione di forme di partecipazione fondata sulla condivisione del rischio rientrano, anzitutto, la logica della fidelizzazione dei lavoratori e la continuità nei passaggi generazionali; inoltre, la partecipazione economica consente di incrementare la produttività del lavoro e motivare il lavoratore che assume la veste di azionista 60.
Delle forme di partecipazione adottabili a livello nazionale, si è optato per la partecipazione decisionale e per le tecniche partecipative sperimentate sin dagli anni ’80 e regolate da scarne disposizioni contenute nel Codice Civile61 e in alcune leggi62.
All’adozione di forme più incisive di partecipazione non osta il dettato costituzionale il quale riconosce espressamente il principio di partecipazione dei lavoratori in azienda quale valore della società e come forma di tutela del risparmio63.
Il sistema realizzato dai padri Costituenti è uno strumento di democrazia progressiva che tende a realizzare una forma di “socialismo moderno” coniugando la libertà economica con l’autonomia sindacale e con i diritti fondamentali della persona64.
Sono note le ragioni per cui la norma costituzionale è rimasta, ad oggi, lettera morta65: la scelta di non predisporre tecniche partecipative di natura finanziaria va rintracciata nelle forti remore a trattare il rapporto di lavoro in modo rigido, visto il periodo precedente in cui essa è stata emanata (fascista)66.
A ciò si aggiungono i rischi legati ad uno schema imposto dall’alto che riguardano tanto l’impresa (che incorre in tempi più lunghi per le decisioni oggetto di troppi passaggi e di maggiori incertezze collegate alle diversità di interessi) quanto il lavoratore (che potrebbe entrare in conflitto con i lavoratori non proprietari)67.
4. Spunti conclusivi di riflessione
Sebbene il principio della partecipazione dei lavoratori in azienda sia espressamente sancito dalla Carta costituzionale, persistono degli ostacoli alla piena realizzazione dell’istituto della democrazia sindacale, tutti limiti derivanti dalla prevalente logica della partecipazione conflittuale ancora fortemente radicata nella cultura sindacale italiana68.
Il contesto attuale potrebbe essere terreno per sperimentare forme di partecipazione. Anzi, è proprio dalla partecipazione che si dovrebbe ripartire per aumentare la competitività complessiva e per disporre di un’alternativa al ridimensionamento altrimenti imposto dalla difficile situazione economica e dal mutato scenario delle relazioni industriali69.
Per anni, il diritto di proprietà è stato il criterio cardine con cui conferire al datore di lavoro un potere sovraordinato nel decidere tutti gli aspetti legati alla organizzazione, alla gestione e al controllo produttivo. Oggi, tale motivazione cede il passo dinanzi a questioni di maggiore complessità (instabilità dei mercati, competizione pressante su scala globale, disoccupazione galoppante, alto tasso di povertà)70.
L’idea di integrare gli strumenti di democrazia sindacale (contratto collettivo e partecipazione) potrebbe condurre verso una minore conflittualità71. Inoltre, l’introduzione di un modello di partecipazione economica potrebbe recare un vantaggio competitivo sostenibile alle imprese, nell’ottica del Corporate Social Responsability, e attenuare gli effetti negativi del mercato72.
Dunque, la partecipazione potrebbe servire come strumento per ripensare le tutele dei lavoratori in vista di una loro maggiore valorizzazione: il rilancio del capitale umano, considerato fattore di acceleratore della crescita economica, e la riscoperta della “dimensione qualitativa del lavoro”73 con la “partecipazione progettuale”74.
Questo approccio auspica, da un lato, la partecipazione attiva dei lavoratori, che risultano valorizzati nelle loro esperienze, nella creatività e nella capacità di risolvere i problemi, e, dall’altro, un atteggiamento proattivo delle aziende che possono migliorare la produttività e le condizioni di lavoro e sviluppare nuovi sistemi socio-tecnici e di lavoro75.
La partecipazione dei lavoratori in azienda rappresenta, oggi, uno strumento non alternativo ma “integrativo” alla contrattazione collettiva: entrambi gli strumenti di democrazia sindacale consentono di “co-determinare” strategie e modi di regolazione sociale e di organizzazione del lavoro76.
Va certamente in questa direzione l’ultima proposta normativa ancora in fase di discussione in aula che ha lo scopo di “colmare” il ritardo italiano rispetto agli altri paesi europei rendendo obbligatorie alcune procedure già previste dalla contrattazione collettiva ed estendendo, a tutti i settori produttivi, la partecipazione economica77.
(Per la bibliografia vedi la fonte Salvis Juribus)