In un Paese in cui va di moda litigare, ciò che serve invece è la capacità di metter in campo nuove idee e – attorno ad essere – riuscire a fare squadra.
Nessuno – Governo, imprese, sindacato – può pensare di farcela da solo: bisogna sapersi mettere in discussione, perché i vecchi schemi del passato o la manutenzione ordinaria non bastano più.
Si dice sempre che competitività e innovazione sono le sfide con le quali dovranno misurarsi le imprese nell’economia globalizzata. È vero, ma lo stesso vale per il sindacato e per il Governo. Perché dopo la crisi nulla sarà come prima. In otto anni l’industria ha perso 600 mila posti di lavoro e un terzo del suo tessuto produttivo: cifre da bollettino di guerra. Ma la crisi, da sola, non avrebbe forse prodotto tanti danni se ad aggravarla non vi fosse stata l’impreparazione delle imprese italiane, che dopo la grande trasformazione degli anni ’90 non hanno saputo tenere il passo dei cambiamenti. In alcuni casi, per meglio dire, non hanno voluto: non si spiegherebbe altrimenti il calo di 80 miliardi accusato nello stesso arco di tempo dagli investimenti. In molti casi i capitalisti di casa nostra hanno preferito rifugiarsi nella rendita, in altri hanno portato ricchezza fuori dall’Italia (non sempre in modo legale).
Come ha sostenuto la Fim anche nell’audizione in Commissione X Attività Produttive alla Camera che si è tenuta martedì 1 marzo, Industry 4.0 è una rivoluzione già iniziata. Il Governo ora deve fare la sua parte con coraggio per recuperare il clamoroso ritardo accumulato in questi anni: servono importanti investimenti sulle nuove tecnologie (a partire dalla banda larga), ma anche un profondo cambiamento culturale e nuovi modelli organizzativi, in cui sindacato e lavoratori possano svolgere un ruolo importante. Le imprese devono riavviare i programmi di investimento troppo a lungo rimandati e realizzare una vera partecipazione dei lavoratori alle strategie aziendali. Occorre inoltre colmare il gap di competenze professionali attraverso l’introduzione della formazione come diritto soggettivo e l’alternanza scuola/lavoro. Vanno inoltre sperimentate nuove modalità e strumenti innovativi di organizzazione del lavoro, come lo smart working e il co-working.
Va recuperata una visione positiva e progettuale del lavoro, insomma.
Ciò che serve al nostro Paese oggi è un grande piano industriale e strategico, fondamentale per recuperare produttività, un piano che favorisca il back reshoring e soprattutto riposizioni l’Italia tra i leader mondiali della manifattura industriale.
Nel settore metalmeccanico, che rappresenta il 7,4% della ricchezza prodotta in Italia, il sindacato ha fatto da argine: contrattando, difendendo l’occupazione, spingendo il sistema a industriale a rendersi più competitivo.
In questi giorni si sta discutendo con Federmeccanica il rinnovo del contratto metalmeccanico, un rinnovo tra i più difficili della storia, che interessa oltre 2 milioni di persone. La trattativa cade in un momento critico: l’inflazione prossima allo zero impone un deciso ri-orientamento, un salto in avanti, delle relazioni sindacali e industriali. Per realizzarlo, c’è bisogno – da parte di tutti – di superare pregiudizi ideologici radicati nel passato e rendite di posizione.
Da parte sua la Fim ha detto fin dall’inizio che non è interessata ai tatticismi. I metalmeccanici della Cisl sono infatti convinti che la riforma del modo stesso di fare contrattazione debba tener conto delle novità che stanno maturando sul fronte tecnologico, a cominciare da Industry 4.0.
Le distanze restano ancora notevoli rispetto alla piattaforma presentata dagli industriali. L’orientamento dei meccanici Cisl è noto: mantenimento dei due livelli contrattuali, pur evitando sovrapposizioni e ridondanze; un contratto nazionale che resti strumento di garanzia normativa e salariale, e che ribadisca quindi l’obiettivo della tutela dei salari dall’inflazione, rendendo i minimi contrattuali il salario di riferimento per tutti i dipendenti del settore; ampio spazio alla contrattazione decentrata, sia a livello aziendale che territoriale, che sempre più diviene l’ambito in cui ci si misura rispetto alla produttività e se ne redistribuiscono i risultati. Questo perché la ricchezza va distribuita laddove è generata, cioè in azienda.
Purtroppo in molte aziende italiane prevale invece un’attitudine difensiva nei confronti della competizione; si crede cioè di potere reggere il passo solo comprimendo il costo del lavoro e puntando su una flessibilità esasperata. Si spiega così anche l’aumento delle disdette dei contratti integrativi, in particolare delle loro componenti salariali.
Un approccio di questo tipo è in netta controtendenza con le pratiche migliori. Fin troppo facile citare, al riguardo, l’esempio virtuoso del Gruppo FCA – CNHI, che grazie agli accordi siglati con la Fim Cisl oggi ha permesso al Paese di agganciare al ripresa, buona parte della quale è incentrata sulla performance positiva dell’automotive. Quegli accordi, va ricordato, non hanno tagliato nulla, né diritti né salari, il che dimostra come la strada maestra, anche sul fronte della contrattazione, non è certo quella del gioco a ribasso.
Ovviamente la contrattazione non può da sola sopperire alle carenze del sistema – Italia. Per far crescere in maniera stabile produttività e occupazione diventa così fondamentale lavorare sull’ambiente economico in cui le imprese si muovono: la riduzione del costo dell’energia, lo snellimento della burocrazia, la certezza della giustizia, gli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali sono forse i più importanti nodi da sciogliere.
Ma ancor più importante è la questione che possiamo definire culturale.
E, su questo, decisiva sarà la sfida della partecipazione. Che può essere di diversi tipi, a seconda del modello che si prende a riferimento. La Fim, da parte sua, ha scelto in partenza di non trascurarne nessuno. Così accanto ad una partecipazione che si sostanzia nei diritti di informazione e consultazione, che guarda con attenzioni alle pratiche di responsabilità sociale ed all’elaborazione di codici etici aziendali, che si misura sul benessere organizzativo e sul welfare contrattuale, che vuole incentivare la formazione come strumento di crescita individuale e collettiva, vi è anche una partecipazione di tipo strategico. Quella cioè che, sulla falsariga di quanto avviene già nei Paesi del Nord Europa, mira ad incidere sulla governance delle aziende attraverso l’introduzione di lavoratori o loro rappresentanti negli organismi di controllo e vigilanza.
Una cosa infatti è certa: il coinvolgimento, pur indispensabile, non è sufficiente ad assicurare una conciliazione virtuosa tra produttività e qualità del lavoro e di vita. Solo chi non conosce una fabbrica moderna può negarlo. Occorre invece una vera partecipazione.
Lo dimostrano anche i risultati della più rilevante ricerca sul lavoro in fabbrica degli ultimi anni, “Le persone e la fabbrica. Una ricerca sugli operai Fiat-Chrysler in Italia”, realizzata dalla Fim Cisl in collaborazione con il Politecnico di Milano e con quello di Torino. Più di 5 mila lavoratori intervistati, senza badare ad orientamenti politico-sindacali, per ascoltare le loro voci e individuare soluzioni di sostenibilità del sistema e non di mera denuncia.
La morale è che, per non essere relegati alla marginalità o ridursi ad ostaggi dei salotti televisivi, bisogna tornare tra i lavoratori, ascoltarli, studiare il loro lavoro, con il rispetto, l’attenzione e la curiosità di chi sa accantonare il proprio armamentario di slogan per aprirsi alle idee innovative.
La grande sfida della modernità si vince, inoltre, con una condivisione diffusa e una forte alleanza tra tutti quei soggetti che, non da oggi, praticano l’innovazione nei fatti e nelle azioni, superando dogmi e rendite di posizione. Certo, per essere in campo, tutti i soggetti della rappresentanza hanno la necessità di fare i conti con la propria capacità di autoriforma. La manutenzione ordinaria non è più sufficiente, siamo chiamati a fare scelte radicali, rifondatrici e rigeneratrici. Radicali, perché la modernità richiede un cambiamento che è soprattutto culturale. Rifondative, perché su molti aspetti ci siamo distaccati dalle grandi intuizioni su cui si è fondato il sindacato. Rigeneratrici, perché i valori positivi, la fiducia nel progresso e nell’equità devono essere i tratti distintivi di organizzazioni capaci di progettare il futuro e ridare speranza e prospettiva ai giovani.
(firstonline.info, 05.03.2016)