Marcello Bianchi – Democrazia economica: ricominciare dalla corporate governance

Il dibattito sulla democrazia economica, intesa nelle varie forme di partecipazione dei lavoratori alla vita delle imprese, ha avuto in Italia un andamento carsico, condizionato per lo più da presupposti ideologici che ne hanno compromesso la traduzione in esperienze concrete.

La fase attuale, dominata dalle ossessioni populiste che riversano sullo Stato la soluzione di ogni aspettativa, è quella di un totale inabissamento di questo tema, anche perché i sindacati, tradizionali promotori del dibattito, annaspano in una crisi di identità e in una subalternità culturale alle supposte emergenze economiche e sociali. Eppure, se si avesse la forza di alzare il capo dal putrescente ombelico nazionale, si scorgerebbero in Europa i segnali di cambiamenti epocali sul tema della democrazia economica, paradossalmente a partire dal tempio della vituperata finanza internazionale: quel Regno Unito che, pur tramortito dalle incertezze di una Brexit inconcludente, non rinuncia a cercare una rifondazione sociale del proprio modello di capitalismo.

È di pochi mesi fa la revisione del Codice di corporate governance inglese che, sulla base di un preciso mandato politico del governo conservatore, ha introdotto tra i doveri dei consigli di amministrazione delle società quotate quello di assicurare un maggiore impegno nei confronti dei lavoratori al fine di considerare il loro • la costituzione di un comitato consultivo formale del consiglio per i rapporti con i lavoratori che includa loro rappresentanti; • l’attribuzione a un amministratore non esecutivo del compito di dialogare con i lavoratori e riportare in consiglio i risultati. In base al principio “comply or explain” che ispira tutte le disposizioni del Codice, le società possono scegliere di adottare altre forme di dialogo con i lavoratori, purché spieghino i motivi per i quali sono ritenute più efficaci; in ogni caso gli interessi dei lavoratori devono essere esplicitamente considerati e il loro coinvolgimento assicurato.

L’aspetto più innovativo dell’esperienza del Regno Unito non è tanto nei contenuti, quanto nel fatto che l’iniziativa sia stata assunta, sebbene sotto la spinta governativa, dall’autodisciplina delle società quotate che ha considerato il tema dei coinvolgimento dei lavoratori non sul piano dell’equità sociale, ma su quello dell’efficienza economica e di un sano rapporto con il mercato dei capitali, che costituiscono i fini ultimi cui si rivolgono le migliori pratiche di governance indicate dal Codice. Si tratta di un nuovo orientamento adottato dalle iniziative di autodisciplina della corporate governance delle società quotate in tutti i principali paesi europei, purtroppo nell’indifferenza – quando non nell’ostilità – dei sindacati, che sembrano incapaci di coglierne il carattere innovativo e gli spazi inediti per partecipare attivamente a una gestione delle imprese capace di rispondere alle sfide sociali che i lavoratori, anche più delle altre categorie di stakeholders, devono affrontare in un capitalismo in rapida evoluzione.

È significativo che anche i sindacati inglesi, tradizionalmente meno succubi di pregiudizi ideologici, abbiano reagito in maniera sostanzialmente negativa all’innovazione del Codice inglese, reclamando una trasformazione dell’autodisciplina in una legislazione cogente, spinti dal timore di non essere in grado di influire nelle singole realtà di impresa e rifugiandosi in più comode rendite di posizione garantite dallo Stato.

E invece è proprio nella natura autodisciplinare dell’esperienza inglese, e nella sua strutturale flessibilità pur nella fermezza dei principi di fondo, che emergono gli spunti più interessanti per una rivitalizzazione delle relazioni industriali, nel vivo delle singole realtà imprenditoriali e sottraendole ai tavoli polverosi di meccanismi di concertazione centralizzati, ormai atrofizzati dalla carenza di risorse del welfare pubblico.

Purtroppo, in Italia l’attuale dibattito sembra assai lontano da questa prospettiva, prigioniero com’è di una visione meramente macroeconomica, e le relazioni industriali stagnano alla ricerca, meritoria ma finora infruttuosa, di nuovi modelli contrattuali in grado di superare il tradizionale centralismo. L’annunciata revisione del codice di autodisciplina delle società quotate italiane, che intende rafforzare il ruolo della governance nell’orientamento delle società verso una crescita sostenibile nel lungo periodo, potrebbe invece essere l’occasione per riavviare anche da noi una discussione sul tema della democrazia economica, come componente indispensabile di una visione della sostenibilità di impresa che non si esaurisca nella pur impellente tutela ambientale.

(ISRIL)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *