La Federazione FINCO ha presentato presso le Commissioni congiunte VI Finanze ed XI Lavoro pubblico e privato le proprie osservazioni in merito alle proposte di legge in materia di partecipazione dei lavoratori al capitale, alla gestione e ai risultati dell’Impresa.
Di seguito si riporta la memoria scritta presentata alle Commissioni:
“Ai fini degli obiettivi del PNRR ma, più in generale, del rilancio del Paese, è necessario un profondo cambiamento culturale prima ancora che produttivo che veda imprese e lavoro insieme anche in modalità nuove. La responsabilità individuale e la consapevolezza che, insieme ai diritti reclamati esistono anche doveri inderogabili, dovrebbero rappresentare condivise priorità.
Altrettanto cruciale è il ripristino della meritocrazia nelle scelte e nella selezione, in particolare, della classe dirigente.
Questo cambiamento culturale deve riguardare anche, ed anzi soprattutto, il mondo del lavoro e le relazioni industriali. Occorre introdurre innovative misure di sistema che favoriscano il successo delle imprese, e quindi dello sviluppo economico nel suo complesso, promuovendo la maggiore unità di intenti possibile.
Adesione all’azionariato dei dipendenti
Una di queste misure – ove ricorrano determinati presupposti – può essere costituita dalla diffusione dell’azionariato dei dipendenti che, tuttavia, è bene precisarlo subito, non può essere promosso con la sola leva fiscale in quanto ciò non sarebbe in coerenza con l’assetto ordinamentale del nostro Paese, né con le possibilità economiche del medesimo. Tale leva pertanto non potrebbe che essere accessoria.
L’adesione all’azionariato dei lavoratori (operai, impiegati, quadri e dirigenti) deve avere forma volontaria (attraverso strumenti sui cui si tornerà, come ad esempio forme di welfare, PIR- piani individuali di risparmio “facilitati”- piani di acquisto scontati, stock options per quadri e dirigenti, o anche facilitazione al leveraged buyout dei dipendenti in taluni casi, con il supporto del sistema bancario) e potrebbe essere sostitutiva – previo accordo a livello aziendale – di parte delle retribuzioni di risultato, ma con prospettive di crescita delle medesime più allettanti.
L’allargamento all’azionariato ai lavoratori dovrebbe essere accompagnato da un’azione formativa verso i dipendenti – azionisti (non a carico prevalente dell’impresa, come sembra emergere da una delle proposte qui in esame).
Ciò in attuazione di quanto previsto dall’articolo 46 della Costituzione nonché dalla Raccomandazione 92/443/CEE del Consiglio UE del 27 Luglio 1992, concernente la promozione della partecipazione dei lavoratori subordinati ai profitti ed ai risultati di impresa.
L’argomento è riaffiorato nel dibattito politico con una certa forza, sia negli ambienti datoriali che in quelli sindacali.
Va comunque ricordato che tale partecipazione dei dipendenti al capitale d’impresa è operazione possibile indipendentemente da quanto si potrebbe andare successivamente a legiferare, in quanto la linea di confine fra capitale e lavoro è determinabile per volontà delle parti.
Si tratta, pertanto, di trovare – trasformando ad esempio i testi delle proposte in esame in una “legge cornice quadro” – alcuni punti cardine che delineino il rapporto fra capitale e lavoro nelle imprese facendo fare un passo in avanti all’intero sistema aziendale italiano che è, a questo riguardo e per certi versi, non tra i più avanzati d’Europa: la Germania ha in atto l’azionariato operaio dal lontano 1948, l’Inghilterra e la Francia, da molti anni, dispongono di Consigli di sorveglianza interni alle imprese, costituiti da rappresentanti datoriali e dei lavoratori, mentre in Italia la separazione è più netta, come si evince dalle note della Federazione Europea dei dipendenti azionisti.
Invero, la Costituzione Italiana sarebbe, nel citato articolo 46, in un certo senso prodromica alla creazione dei consigli di gestione o analoghi consessi, volti a portare all’interno dell’impresa la partecipazione dei lavoratori e prevedeva – e prevede – l’istituzione del CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro) quale “macro stanza” di compensazione fra capitale e lavoro, funzione mai in realtà svolta, tant’è che alcuni anni fa è stata proposta la sua condivisibile eliminazione in quanto Ente superfluo (ed in sostanza è stato mantenuto solo perché, avendo dignità costituzionale, si sarebbe dovuto fare una modifica della Costituzione con specifico procedimento parlamentare).
Va detto, al riguardo, che le principali Confederazioni, sia datoriali che sindacali dei lavoratori, pur per motivazioni diverse, si sono trovate alquanto in sintonia nel negare questi momenti di incontro fra capitale e lavoro all’interno delle Aziende, onde il Legislatore, che era andato più avanti dei suddetti, si è trovato nel tempo spiazzato. Ciò, da un lato per una certa resistenza da parte dell’impresa familiare a condividere determinate informazioni con i lavoratori, dall’altro per il timore che il dipendente “azionista”, certo reso più interessato alle sorti aziendali, si possa distaccare dalle consuete aggregazioni sindacali, anche da un punto di vista “psicologico”.
Non è facile trovare una soluzione a questo problema in Italia, dove la “geografia” aziendale si diversifica di molto dal resto d’Europa, in quanto costituita per oltre il 95% da piccole e medie imprese. Dove quindi risulta più elevato il rischio che si ingeneri con una certa facilità una contendibilità all’interno dell’impresa anche da parte di soggetti economicamente più deboli quali i lavoratori, che certo non potrebbero mai dare la scalata, per fare un esempio, alle Assicurazioni Generali, le quali hanno rilasciato azioni premiali ai loro dipendenti senza tema alcuno.
Non si tratta quindi soltanto di relativa arretratezza del capitalismo familiare italiano, ma anche di una sorta di difesa strutturale di un sistema capitalistico industriale di piccole e medie imprese che spesso non si possono permettere di avere al loro interno.
Con la rilevante eccezione della magnifica area del Made in Italy, la nostra piccola e media impresa soffre di un nanismo strutturale, che appare difficilmente superabile né la soluzione dell’azionariato dei dipendenti è in verità suscettibile di essere di per sé sufficiente a muovere il sistema verso una crescita non più rinviabile.
Piccolo non è bello, talvolta, per la conquista dei mercati domestici e internazionali con un tessuto di micro imprese che, invece che crescere dimensionalmente, tendono per lo più a moltiplicarsi di numero. Riteniamo quindi che si potrebbe tentare, con la accennata “legge quadro”, di esplorare il problema con una prospettiva rinnovata: cioè quella di rapportare in modo diverso il capitale e il lavoro, pur tenendo in considerazione tutti i vincoli che esistono, sia in tema di libertà d’impresa, sia in tema di tutela del lavoro stesso.
I limiti sono in un certo senso angusti, per cui questa “norma quadro” potrebbe contenere pochi principi base, in attesa di una adeguata sperimentazione. Il termine “cogestione” talvolta utilizzato in questo contesto, non è il più appropriato.
Il tipo di azionariato di cui trattiamo dovrebbe essere riservato ai lavoratori in forza alle rispettive aziende e dovrebbe essere vigilato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy.
La scarsità di manodopera, specie qualificata, che caratterizza l’attuale congiuntura, potrebbe tra l’altro indurre non poche PMI a considerare l’ipotesi della partecipazione di cui trattasi, che potrebbe essere vista come motivante nella la scelta di un’azienda piuttosto che un’altra da parte del lavoratore. Alcune delle imprese “super-specialistiche” che Finco rappresenta, potrebbero essere adatte a intraprendere questo percorso data l’alta qualificazione delle maestranze.
La proposta più equilibrata sembra essere quella a prima firma On. Foti, ancorché vi siano alcuni aspetti da migliorare, mentre la proposta di iniziativa popolare e quella a prima firma On. Faraone sembrano essere alquanto lontane da alcuni principi precedentemente esposti e ricalcare schemi a nostro avviso non adeguati a quella che dovrebbe essere anche, per certi versi, una “rivoluzione” culturale.
Ciò premesso vanno specificati alcuni ulteriori punti onde non ripercorrere gli stessi passi che sino ad ora sono stati in larga parte ostativi dell’unità di intenti di cui in premessa.
È necessario in particolare allontanarsi dall’approccio sindacale tradizionale così detto “maggiormente/comparativamente rappresentativo”, incardinato nel CNEL, individuato da alcune proposte di Legge come l’organismo centrale in materia (Commissione Nazionale per la partecipazione dei lavoratori), ma che non è organismo adeguato a questo ruolo.
Si tratta, infatti, di concepire un meccanismo che sia applicabile anche al 95% delle imprese italiane, piccole e medie imprese e nella maggioranza piccolissime. Pertanto, è inopportuno continuare a fare riferimento alle solite liturgie delle relazioni industriali ed ai soli contratti collettivi nazionali di lavoro “maggiormente rappresentativi” per quanto riguarda i lavoratori, anche perché spesso questi ultimi sono assenti in tali tipologie di aziende.
Va anche ribadito che, per favorire la partecipazione azionaria, è essenziale garantire la volontarietà sia da parte dei lavoratori che da parte dei datori di lavoro. La volontà aziendale, cruciale ai fini di promuovere tale partecipazione azionaria, sia essa espressa o meno a livello di statuto o di regolamento interno, non dovrebbe essere bypassata da leggi o accordi sindacali.
L’azionariato dei lavoratori rappresenta un’opportunità per favorire l’unità di intenti e il successo delle imprese, ma deve essere implementato con attenzione e in modo equilibrato, lasciando la scelta del modello partecipativo più appropriato a livello aziendale.
Nell’ipotesi evocata di una “legge quadro”, si potrebbe poi prevedere l’istituzione, in termini patrimoniali di bilancio, di un valore virtuale del “capitale umano”.
La quantificazione del capitale umano
La quantificazione di tale capitale umano potrebbe derivare da un calcolo necessariamente complesso e che potremo illustrare a parte, che misuri quanto valga nell’economia dell’azienda il valore quantitativo e qualitativo dei dipendenti, riferendosi solo a quelli a tempo indeterminato, in raffronto al capitale economico complessivo dell’azienda stessa. Capitale che potrebbe essere costituito sia in via virtuale, ad esempio per i beni immateriali dal valore di avviamento di impresa, sia attraverso un capitale prestato dagli istituti bancari su garanzia dello Stato con redimibilità a lunghissimo termine.
Su tale capitale, una volta individuatone il valore, si potranno staccare azioni privilegiate, cioè di quelle che non danno diritto al voto e che, allo stato odierno, sono previste solo per le società quotate in borsa.
Ciò perché non si deve imporre in via legislativa a un datore di lavoro di cedere una parte del suo patrimonio ad azionariato di lavoratori; non resterebbe altro quindi che costituire un capitale virtuale di supporto, sul quale far insistere tutte le operazioni privilegiate fra imprenditore e lavoratore.
Le azioni staccate su questa parte del capitale potranno essere concesse, sempre sull’accordo delle parti, per premio di produzione, quote d’opera per i dirigenti, ecc.
Concepito, così, questo nuovo rapporto, non vi sarebbero obblighi di sorta da parte dell’imprenditore di cedere quote del suo potere aziendale a dipendenti o dirigenti.
La ipotizzata “legge quadro”, di cui trattatasi, in sostanza potrebbe pronunciarsi solo sui seguenti due aspetti:
1. costituzione di un capitale virtuale e/o garantito dallo Stato (Cassa Depositi e Prestiti, i cui fondi verrebbero utilizzati più in coerenza con le esigenze del tessuto delle PMI italiano) a fronte del valore del capitale umano presente all’interno dell’impresa;
2. emissione da parte dell’impresa di azioni privilegiate a vantaggio dei lavoratori, su accordo sindacale nazionale, territoriale o aziendale che lo preveda per avvenimenti premianti legati alla crescita e alla promozione dell’impresa stessa.
Va da sé che le parti, nelle rispettive sedi deputate, potranno migliorare questa base e decidere di commutare le azioni privilegiate in azioni con diritto di voto, immettendo così i lavoratori nei poteri aziendali, a cominciare dai dirigenti, che sono i più idonei per competenza ed esperienza a poter gestire la vicenda aziendale.
Questi punti costituiscono certamente un contributo solo parziale all’attivazione di un processo così complesso quale quello del rapporto fra capitale e lavoro nell’impresa, ma, tenendo conto della fitta legislazione esistente in materia nel nostro Paese, si ritiene di procedere con prudenza onde non incappare in divieti incrociati a tutela della libertà di impresa e della forza lavoro”.