Lo dicono praticamente tutti: c’è bisogno di regolamentare i lavori della gig economy. Da una parte le startup e gli imprenditori che non vogliono vedere ‘ingessato’ nel vincolo di subordinazione un tipo di lavoro così flessibile e ‘fluido’; dall’altro i lavoratori, che chiedono maggiori tutele e un inquadramento più chiaro rispetto alla ‘prestazione occasionale’ a cui molti sono attualmente sottoposti.
Numerosi giuristi hanno evidenziato l’errore diffuso di affrontare un fenomeno nuovo come quello della gig economy con strumenti giuridici e politici del passato. Così la pensa Pietro Ichino, avvocato giuslavorista, ex senatore del Partito Democratico e di Scelta Civica, ideatore e primo firmatario del disegno di legge “Disposizioni in materia di lavoro autonomo mediante piattaforma digitale” del 5 ottobre 2017.
Secondo Ichino una possibile soluzione agli attuali problemi della gig economy potrebbe essere rappresentata dalla creazione delle cosiddette umbrella companies, imprese-ombrello che “offrono un contratto di lavoro, anche in forma subordinata, ai lavoratori autonomi interessati a una copertura previdenziale e all’esenzione dalle complicazioni amministrative per l’incasso dei compensi”. Oltre a questo, le umbrella company già attive in paesi europei come il Belgio offrono assistenza mutualistica attraverso fondi propri (per ovviare alla discontinuità di reddito e ai ritardi nei pagamenti) e svolgono funzione di rappresentanza collettiva.
Trebor Scholz, attivista e professore associato alla New School di New York, nel suo libro Uberworked and Underpaid: How Workers Are Disrupting the Digital Economy (Uberworked e sottopagati: come i lavoratori stanno sconvolgendo l’economia digitale) ha messo a punto una proposta alternativa alla gig economy attuale, quella del “cooperativismo delle piattaforme” (platform cooperativism).
Primo: rompere con il sistema di applicazioni come Uber e Upwork e cambiare il modello di proprietà delle piattaforme tecnologiche. Secondo: incentivare la solidarietà e l’organizzazione tra i lavoratori delle piattaforme digitali, ‘sparpagliati’ e quasi anonimi. Terzo: garantire loro tutele e salari minimi.
Le cooperative italiane Doc Servizi e SMart potrebbero rappresentare l’applicazione pratica di alcune delle teorie di Scholz. Le due cooperative lavorano dentro la gig economy secondo un sistema che alimenta e fa crescere la comunità dei loro soci-lavoratori, inserendoli in una rete protetta che trattiene per sé solamente i costi di gestione della piattaforma.
La cooperativa Doc Servizi ha quasi trent’anni. Nata per gestire e tutelare i professionisti del mondo dello spettacolo, ora si può definire come una ‘rete di professionisti organizzati in una piattaforma cooperativa’. Nel 2017 il fatturato era di oltre 45 milioni di euro e i soci poco meno di 3.300, in larga parte lavoratori dello spettacolo con un centinaio di freelance tra grafici, fotografi, traduttori e altri.
SMart invece è stata fondata nel 1998 in Belgio, dove è addirittura riuscita a negoziare un accordo con il colosso della consegna a domicilio Deliveroo per garantire tutele previdenziali, assicurative e salariali ai suoi ciclofattorini (poi ritirato nel 2018).
Il potere negoziale di SMart Italia è più limitato, anche perché i primi soci sono arrivati meno di quattro anni fa. Ora sono in più di 1300 ad essere ‘assunti’ dalla cooperativa mutualistica con le tutele tipiche di un lavoratore dipendente e tre tipi di contratto: lavoro intermittente, collaborazione coordinata e continuativa e cessione dei diritti d’autore.
(Rai News)