La prima constatazione, per nulla scontata, da cui dobbiamo partire è questa: in un mercato del lavoro maturo non sono solo gli imprenditori a cercare, valutare e scegliere i propri dipendenti, ma sono anche i lavoratori a cercare, valutare e scegliere l’imprenditore.
Lo fanno, ovviamente, quando limitano la loro ricerca di una occupazione a un settore, e poi in quel settore escludono alcune imprese perché troppo piccole, o troppo lontane, o per altri motivi. Ma lo fanno anche quando, insoddisfatti delle imprese della loro zona, decidono di migrare vicino o lontano per trovarne altre più capaci di valorizzare il loro lavoro. Sta di fatto che in Italia, in ciascuno degli ultimi anni, nonostante la crisi economica gravissima, sono stati stipulati circa dieci milioni di contratti di lavoro regolari (dati risultanti dal sistema delle Comunicazioni obbligatorie al Ministero del lavoro); e a stipularli sono stati milioni di lavoratori con milioni di imprese. Questo dato impressionante è incompatibile con il paradigma del lavoratore privo della possibilità di scegliere. Certo, ci sono anche i disoccupati di lunga durata che non sono riusciti a entrare nel giro, ma la loro presenza non contraddice questo dato: ogni anno in altri milioni di casi non è stato solo l’imprenditore a selezionare la controparte, ma in qualche misura anche il lavoratore. E già questa constatazione collima poco con l’idea del mercato del lavoro che traspare dai discorsi di tanti esponenti della vecchia guardia conservatrice – da Niki Vendola a Matteo Salvini, da Stefano Fassina a Giorgia Meloni – ancora affezionatissimi a un modello che non corrisponde più alla realtà: quello del monopsonio strutturale originario, cioè della fabbrica-cattedrale nel deserto.
Ancor meno collima con quella visione del mercato del lavoro una seconda constatazione: accade talvolta che i lavoratori abbiano l’opportunità di selezionare e scegliere l’imprenditore non solo come singoli, sfruttando la propria mobilità individuale, ma anche collettivamente, attraverso i propri rappresentanti politici e/o sindacali, sfruttando la mobilità dell’imprenditore stesso. Consideriamo, per esempio, quello che accadde nel 2008, quando il Governo Prodi riuscì a rendere concreta l’ipotesi che Alitalia (fallita) venisse rilevata da Air France-Klm, e si aprì un tavolo di negoziazione tra l’amministratore delegato del colosso franco-olandese e i sindacati dei lavoratori della nostra compagnia aerea di bandiera: quella negoziazione ben può essere vista come una procedura di selezione dell’imprenditore da “ingaggiare”. Fu, infatti, proprio a seguito di quella negoziazione che i lavoratori bocciarono Air France-Klm e fecero invece l’accordo con l’italianissima la cordata promossa da Silvio Berlusconi, la C.A.I., evidentemente ritenendo irrilevante che essa fosse composta da imprenditori dei quali nessuno aveva mai fatto volare un aereo.
In questo ordine di idee possiamo vedere come un atto di ingaggio dell’imprenditore da parte del collettivo dei lavoratori anche il “sì” espresso da questi ultimi, su indicazione di Fim-Cisl, Uilm e Fismic, nel 2010 nel referendum di Pomigliano sul piano industriale proposto da Sergio Marchionne per portare la produzione della Panda dalla Polonia in Italia, poi nei referendum analoghi che si svolsero negli stabilimenti di Mirafiori e di Grugliasco. Certo, anche in quel caso l’alternativa non era brillantissima: se avesse prevalso il “no”, per quegli stabilimenti non sarebbe restata altra possibilità che un intervento dello Stato; ma la Fiom-Cgil che sostenne il “no” in quei referendum evidentemente preferiva proprio questa alternativa. Furono comunque i lavoratori a decidere. Questa volta per fortuna nel senso migliore.
Un altro caso interessante, nel quale si vede come operi la selezione dell’imprenditore da parte dei lavoratori collettivamente intesi e rappresentati, è quello che raccontai nel libro A che cosa serve il sindacato, del 2005 (pp. 173-176): in quel caso i sindacati dei ferrovieri lombardi rifiutarono il piano industriale proposto dalla società italo-svizzera Ti-Lo, che prevedeva, insieme alla prospettiva di un progressivo aumento degli stipendi fino a livelli svizzeri, vale a dire più che un raddoppio rispetto agli esangui stipendi previsti dal contratto nazionale italiano del settore, anche due deroghe a quanto previsto allora da quello stesso contratto nazionale: il macchinista unico alla guida del treno, invece che due, e 40 ore settimanali di lavoro invece che 36; infine una clausola di tregua che avrebbe posto fine alla prassi dello sciopero mensile, fino ad allora praticata dai sindacati delle ferrovie italiane con costanza e senza eccezioni. Qui i rappresentanti dei ferrovieri lombardi, rifiutando la clausola di tregua e le due deroghe al ccnl proposte dalla Ti-Lo, anticipavano in piccolo di cinque anni quello che sarebbe stato nel 2010, più in grande, lo scontro tra la Fiom-Cgil e Sergio Marchionne. Il rifiuto esplicito del piano industriale proposto dalla Ti-Lo costituiva un rifiuto implicito nei confronti di qualsiasi imprenditore straniero che si proponesse di importare nel nostro Paese un modello di organizzazione del lavoro e di relazioni sindacali diverso da quello instauratosi negli ultimi decenni. Vero è che se in merito al piano industriale proposto dalla Ti-Lo fossero stati consultati gli interessati, cioè i ferrovieri lombardi, probabilmente essi avrebbero accettato a larga maggioranza le due deroghe e la clausola di tregua in cambio della concretissima prospettiva degli stipendi svizzeri; ma in quell’occasione purtroppo sulla decisione unitariamente assunta dai tre sindacati confederali maggiori non ci fu alcun referendum.
Una scelta diametralmente opposta era stata compiuta vent’anni prima dal sindacato maggiore del settore automobilistico in Inghilterra, la Amalgamated Union of Engineering Workers-AUEW quando, nel 1986, essa aveva “ingaggiato” la giapponese Nissan per l’insediamento di un nuovo stabilimento a Sunderland, allora zona depressa con alto tasso di disoccupazione, all’estrema periferia d’Europa (è un altro dei casi descritti nel libro citato sopra). Per portare lì la multinazionale giapponese, l’AUEW aveva accettato non soltanto un’organizzazione del lavoro – la cosiddetta lean production, la fabbrica snella e piatta, che contraddiceva i più sacri principi ancora vigenti in Gran Bretagna a quell’epoca, di un sistema produttivo e di un sindacalismo fondati su rigide gerarchie professionali – ma aveva accettato anche una riduzione del venti per cento della parte fissa delle retribuzioni, rispetto agli standard nazionali, in cambio della pura e semplice prospettiva futura di retribuzioni molto più elevate per effetto di premi di produzione individuali e collettivi che sarebbero scattati solo al raggiungimento di determinati obiettivi. Scommessa vinta: quindici anni dopo, lo stabilimento Nissan di Sunderland era il più produttivo del mondo, con 101 vetture prodotte ogni anno per ogni dipendente; e le retribuzioni effettive erano le più alte del Regno Unito.
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Può accadere, dunque, che sia proprio il collettivo dei lavoratori a ingaggiare o scartare (o addirittura respingere coi cavalli di Frisia) l’imprenditore che viene da fuori. Quando di ciò si tratta, i lavoratori devono saper esercitare attraverso i loro rappresentanti un’intelligenza collettiva, che nei casi Alitalia e Ti-Lo fece loro drammaticamente difetto.
La stessa intelligenza collettiva sarebbe necessaria per allargare il novero dei possibili candidati alla gestione dell’azienda, in modo da poter scegliere in una rosa più ampia l’imprenditore che offre di più sotto il profilo della qualità del piano industriale, dell’affidabilità, della solidità finanziaria. Da questo punto di vista la globalizzazione potrebbe costituire per i lavoratori fonte di opportunità mai viste prima. Perché se è vero che essa consente agli imprenditori di mettere in concorrenza tra loro lavoratori di tutto il mondo, è anche vero che essa consentirebbe a questi ultimi di mettere a loro volta in concorrenza tra loro imprenditori di tutto il mondo, beneficiando dell’offerta migliore. Sotto questo punto di vista appare evidente quanto grave sia l’errore, commesso sistematicamente negli anni passati dai rappresentanti sindacali e politici dei lavoratori italiani, di privilegiare e difendere a priori l’“italianità” dell’impresa. Errore commesso non soltanto nella vicenda Alitalia del 2008, ma in numerose altre, anche se per fortuna non sempre con successo: erano frutto di quell’errore le barricate erette in difesa dell’italianità dell’Alfa Romeo contro le mire della Ford a metà degli anni ’80, dell’italianità del Nuovo Pignone contro la General Electric nei primi anni ’90, di Antonveneta contro l’olandese ABN Ambro nel 2005, di Autostrade contro la spagnola Abertis nel 2006, di Telecom contro AT&T nel 2008, di Parmalat contro la francese Lactalis nel 2011; e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Privilegiare l’“italianità” significa rinunciare preventivamente ‑ oltre che ai miliardi degli investitori stranieri – anche a scegliere l’imprenditore migliore disponibile su scala mondiale, restringendo drasticamente la scelta entro gli angusti confini di un Paese che è solo l’uno per cento del mondo.
Per trarre vantaggio dalla globalizzazione aumentando la gamma degli imprenditori tra i quali poter scegliere occorre pure allineare agli standard dell’Occidente industrializzato i contenuti essenziali della disciplina del lavoro, rendendola facilmente comprensibile agli operatori stranieri. È questo il motivo per cui nel rapporto presentato dal Comitato Investitori Esteri al Governo italiano nel dicembre 2012 tra le prime richieste compariva quella di un codice semplificato del lavoro, nel quale la disciplina dei licenziamenti, dei trasferimenti e più in generale della flessibilità funzionale all’interno dell’azienda fosse armonizzata con quella degli altri ordinamenti europei maggiori. A questa riforma e in particolare al progetto del codice semplificato ho dedicato il libro che sarà in libreria nei giorni prossimi, Il lavoro ritrovato, per mostrare come la libertà e la dignità di tutti siano garantite molto meglio dalla possibilità di scegliere tra diversi imprenditori che da una ingessatura del rapporto di lavoro quale è quella assicurata dall’articolo 18, disponibile oltretutto per metà soltanto dei lavoratori.
I casi della Nissan a Sunderland, della Ti-Lo a Milano e della Fiat a Pomigliano mostrano, poi, quanto sia necessario, per aumentare la gamma degli imprenditori disponibili a investire in casa nostra, che i lavoratori siano disponibili a negoziare il nuovo assetto dell’impresa secondo modelli radicalmente nuovi, praticati con successo in altre parti del mondo. Per questo occorre un sindacato-intelligenza collettiva dei lavoratori capace di prendere in considerazione e valutare, senza chiusure preventive, tutta l’innovazione possibile in materia di organizzazione del lavoro, struttura della retribuzione e rapporti sindacali in azienda: l’esatto contrario di quello che fecero i sindacati dei trasporti Cgil-Cisl e Uil nella trattativa con la Ti-Lo, e cinque anni dopo la Fiom-Cgil in quella con Sergio Marchionne a Pomigliano. Ma occorre anche un sistema di relazioni industriali che consenta al contratto collettivo aziendale, se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria nel luogo di lavoro, non soltanto di derogare al contratto nazionale, ma di sostituirlo radicalmente, come è accaduto alla Fiat dopo la svolta del 2010. Questa è la seconda parte della profonda riforma del sistema delle relazioni industriali, cui il Governo Renzi ha intenzione di dedicarsi – con buona pace di Susanna Camusso e di Maurizio Landini – appena sarà conclusa la fase della riscrittura della disciplina dei rapporti individuali, in attuazione della legge-delega del dicembre 2014.
Il discorso è di interesse vitale per le regioni del Mezzogiorno: anche qui, dove pure ci sarebbe tanto bisogno di importare buona imprenditoria quale che ne sia la provenienza straniera, il sindacato oggi sa solo porre dei paletti preventivi (entità e struttura della retribuzione, organizzazione del lavoro: tutto rigidamente prestabilito al livello nazionale); non sa – come non sanno i governi pubblici locali – cercare per il mondo il buon imprenditore disponibile, valutarne la capacità e il piano industriale senza chiusure preventive, se del caso scommettere su quel piano anche a costo di sperimentare strutture nuove della retribuzione e dell’organizzazione del lavoro, aprirsi a modelli diversi di relazioni industriali. Altro che agitare lo spettro delle “gabbie salariali”: è urgente sgabbiare la contrattazione aziendale!
A seconda che si comporti come le tre confederazioni maggiori nei casi Alitalia 2008 e Ti-Lo 2005, oppure come AUEW nel caso Nissan Sunderland 1986 e Fim-Uilm-Fismic nel caso Fiat 2010, il sindacato può essere una delle tante palle al piede del Paese e soprattutto delle zone depresse, oppure lo strumento che consente loro di attirare gli imprenditori migliori.
(P. Ichino, Il Foglio, 29.05.2015)
Tratto dal sito www.pietroichino.it