Ho studiato filosofia alla Statale di Milano e sociologia alla Scuola Superiore di Sociologia del Cospos, una scuola che non esiste più ma che negli anni ’70 a Milano è stata un importante centro di studio diretto da Alessandro Pizzorno e da Giovanni Arrighi. Poi ho lavorato per quasi un decennio alla formazione sindacale nella Cisl-Lombardia e ho cominciato a insegnare sociologia a Scienze Politiche di Milano e in seguito a Scienze della Formazione de La Bicocca e a Giurisprudenza a Brescia. Ho sempre svolto ricerche per la Fondazione Pietro Seveso, diretta da Tiziano Treu e da Gian Primo Cella e all’IRER, l’Istituto di Ricerca della Regione Lombardia. Ho lavorato in una ONG milanese per cui ho svolto ricerche sui bambini di strada ad Addis Abeba e sulla condizione femminile in Cambogia. Con maggiore costanza mi sono occupato di relazioni industriali, parità uomo-donna, immigrazione. Negli anni più recenti ho svolto ricerche sulle fabbriche recuperate dai lavoratori in Argentina e sul movimento dei contadini “Sem Terra” in Brasile.
Per soffermarci sull’argomento più circoscritto delle fabbriche argentine recuperate dai lavoratori ci può dire cosa hanno in comune e in che cosa differiscono dai cosiddetti workers buyout ?
Credo sia opportuno fare qualche precisazione sui termini che stiamo usando. Se ben ricordo il termine “workers buyout” è stato introdotto nel dibattito italiano, alcuni anni fa, da alcuni articoli del “Corriere della Sera”, firmati da Di Vico, che intendevano descrivere le esperienze italiane di recupero di imprese fallite. Ma questo termine ha un’origine ben precisa. Quando l’amministrazione Reagan, agli inizi degli anni ’80, diede avvio ai processi di privatizzazione delle imprese pubbliche offrì anche la possibilità che queste fossero rilevate dai dipendenti che potevano avanzare un’opzione d’acquisto garantita dai fondi pensione. Una scelta che diede avvio ad alcune esperienze in questa direzione negli States e in seguito anche nell’Inghilterra thatcheriana. L’esperienza del workers buyout quindi ha un’origine del tutto interna al processo di liberalizzazione del mercato di stampo neoliberista e va, credo, considerata come una sorta di iniziale camera di compensazione di fronte a possibili reazioni conflittuali ai vasti processi di privatizzazione di imprese pubbliche. Se dovessimo ora fare una storia dell’ampia fase di ritirata dello stato dall’economia, che ha connotato l’avvento del neoliberismo in tutti i paesi industriali, dovremmo, credo, riconoscere che questo processo si è compiuto senza un’incisiva opposizione del movimento operaio organizzato. Solo in Cina si è avuto un ampio movimento di opposizione operaia ma è stato sconfitto. In India è ancora in corso ed è difficile dire con quali prospettive di successo. A conti fatti non ritengo che l’uso di questa definizione abbia molto senso per esperienze che sono diverse da paese a paese e all’interno di ogni paese. In altre parole oggi non siamo di fronte, almeno in Italia ma neanche negli altri paesi del continente europeo o del Sud America, a processi di “workers buyout” che rispettino l’ origine di queste parole.
Veniamo al dunque. L’occupazione delle imprese argentine e la gestione da parte degli operai hanno caratteri diversi dal “workers buyout” per due motivi. Innanzitutto nascono nel contesto profondamente conflittuale degli inizi del secolo. Uno stato che nel 2001 dichiara default, una classe politica e imprenditoriale completamente screditate, movimenti sociali (disoccupati, donne, contadini, ceti medi in rivolta) di vasta portata. In secondo luogo le fabbriche recuperate si rivolgono tendenzialmente a un modello di autogestione cioè di regolazione democratica a partecipazione diretta dei dipendenti, che si distingue evidentemente dalla gestione privata dell’impresa ma anche in parte dalla gestione in cooperativa (secondo il modello tradizionale dell’organizzazione delle cooperative con il loro statuto, il consiglio d’amministrazione, l’assemblea annuale, ecc.). La differenza è tra democrazia diretta e democrazia delegata. Tra questi due aspetti (origini conflittuali e democrazia diretta o partecipata) c’è uno stretto legame. E’ solo risalendo al trauma della profonda crisi dello stato argentino e del conflitto sociale che ha innescato che si può comprendere la specificità della esperienza argentina. Si tratta di più di 350 imprese piccole e medie che sono state occupate e difese, spesso contro i tentativi di sgombero della polizia e i decreti della magistratura. Il fatto curioso è che a quindici anni dall’inizio di quella esperienza le imprese recuperate non solo non sono diminuite di numero e non hanno cercato di essere acquistate dai privati ma sono aumentate e hanno formato un movimento con una propria organizzazione di rappresentanza che sviluppa forme di mobilitazione e pressione sulle autorità pubbliche e sul governo per essere riconosciute e godere dei benefici di legge previsti per le cooperative. Il movimento si è sviluppato negli ultimi anni in altri paesi dell’America Latina. Si può sostenere che esiste in America Latina un movimento continentale delle fabbriche recuperate i cui rappresentanti si incontrano ogni tre o quattro anni, in genere a Caracas. Quale sarà il futuro di questo movimento? Potrebbe estendersi ulteriormente di fronte ad eventuali prossime crisi economiche ma va detto anche che trova un appoggio assai tiepido da parte dei governi di sinistra o centro sinistra mentre va incontro (come sta avvenendo ora in Argentina ) alla ostilità di quelli di destra. Difficile quindi fare una previsione sensata.
Se veniamo al caso italiano dobbiamo distinguere tra alcune esperienze simili a quella argentina e altre che si si sono uniformate agli ordinamenti e allo stile di conduzione delle cooperative tradizionali.
Al primo modello appartiene un piccolo gruppo di imprese come la Rimaflow di Trezzano sul Naviglio vicino a Milano, le Officine Zero a Roma, il Birrificio Messina e qualche altra. In queste imprese prevale una amministrazione comunitaria più vicina all’autogestione: le decisioni di tipo strategico vengono assunte in assemblea allo stesso modo di quelle organizzative e operative. Recentemente queste imprese si sono collegate con altre esperienze di questo tipo sorte nel settore agroindustriale (come alcune cooperative nate in Puglia e Calabria per iniziativa di gruppi di giovani e ragazzi immigrati dall’Africa che si sono mesi in proprio per uscire dalle tenaglie del caporalato) o agricolo per l’occupazione di terreni agricoli da parte di gruppi di giovani (ad esempio in Toscana e Sicilia). Si è creato così un piccolo movimento di imprese autogestite relativamente coordinato a livello nazionale e che tiene anche rapporti con quello argentino e con esperienze simili presenti in altri paesi europei (Francia, Grecia, Spagna).
Al secondo modello si riferisce invece un altro gruppo di imprese che in questi anni di crisi, in diverse regioni del paese, sono fallite e che poi, spesso con l’aiuto e le consulenza delle maggiori associazioni del settore, si sono costituite in cooperative. In questi casi i dipendenti sono diventati proprietari acquistando l’impresa con l’anticipo della indennità di mobilità, dei propri risparmi e, talvolta, tramite i finanziamento da parte della CFI, una finanziaria che fa capo alle grandi associazioni delle cooperative. Secondo alcune fonti si tratterebbe di una cinquantina di imprese concentrate soprattutto in Emilia Romagna e Campania. E’ evidente che in questi casi prevale il modello tradizionale della cooperazione con i soci, il consiglio di amministrazione cui vengono delegate le decisioni strategiche e organizzative, l’assemblea annuale, ecc.
Queste pratiche di partecipazione dal basso (pensiamo soprattutto alle imprese argentine) sono semplice conseguenza di importanti crisi economiche o piuttosto esperienze mosse da una spinta più cooperativa ed egualitaria?
Se guardiamo alla esperienza argentina notiamo che l’occupazione delle imprese è avvenuta sostanzialmente perché per i lavoratori non si apriva nessuna altra prospettiva che quella di rimanere sul lastrico. Non dobbiamo dimenticare che la disoccupazione, durante la crisi, era arrivata al 20-22 %, che il 40 % della popolazione era caduto sotto la soglia di povertà e che lo stato aveva fatto bancarotta, non potendo quindi più erogare nessun sussidio di disoccupazione e non essendo più in grado di far fronte ad alcuna misura, per quanto minima, di welfare. Di fronte alla prospettiva della fame i lavoratori si sono aggrappati all’unica risorsa che restava nelle loro mani. L’istanza cooperativa, e anche egualitaria, si è fatta sentire successivamente e non tanto per una opzione ideologica (anche se questa non è del tutto mancata) quanto per necessità. Di fronte all’abbandono da parte dell’imprenditore e alla fuga del quadro dirigente e impiegatizio (che qualche altra occupazione, malgrado la crisi, riusciva ancora a trovare) non restava altro da fare che gestire collettivamente l’impresa. Allo stesso modo gli scarsi guadagni che l’impresa riusciva a realizzare (magari per gli interventi dei negozi del quartiere o la solidarietà delle altre fabbriche del settore) non potevano essere redistribuiti in altro modo più ragionevole che in quello egualitario (con qualche piccola modifica in casi particolari). Possiamo dire, semplificando molto, che, col tempo, di necessità si è fatta virtù. Può sembrare curioso, e forse anche strano se guardiamo solo alla nostra storia, ma mi sento di poter dire che se ideologia dell’egualitarismo c’è stata (e c’è ancora) questa è nata più dal basso mentre molto meno è stata innestata da qualche militante (o apostolo) socialista o anarchico o di qualche professore universitario solidale (anche se, sia gli uni che gli altri, non sono mancati).
E’ evidente che in Italia tutto questo non c’è stato. La cassa integrazione e la mobilità hanno continuato a operare durante gli anni di crisi e il dibattito pubblico sull’egualitarismo e l’autogestione si è da tempo prosciugato. Per trovare qualche spunto di riflessione su questi temi bisogna riandare ai numeri di Mondo Operaio degli anni ’60 con i ricchi dibattiti sul controllo operaio a partire degli scritti di Morandi, all’esperienza dei consigli di fabbrica usciti dall’autunno caldo e a qualche discussione che si è protratta ancora negli anni ’70, quando la prima crisi petrolifera aveva portato all’occupazione di non poche imprese fallite. Mi ricordo che nel 1976 la Fondazione Seveso aveva organizzato un bel convegno di studi su questo argomento di cui furono pubblicati anche gli atti. Da allora non c’è stato a mia conoscenza più nulla. Allo stato attuale ripescare i temi dell’autogestione e dell’egualitarismo appare molto difficile se si tiene conto che il dibattito, anche in ambito accademico, è esclusivamente concentrato sul mondo dell’impresa privata. Non mi risulta (ma forse mi sbaglio) che ci siano ricerche in atto sulle imprese autogestite in Italia e che anche su quelle che si sono trasformate in cooperative non si vada molto oltre alcuni articoli apparsi sui quotidiani.