Ho cominciato l’impegno sindacale nel 1975 come delegato, quindi un inizio classico; nel 1979 sono uscito a tempo pieno, sono andato in una federazione nazionale, che era quella degli alimentaristi, e ho seguito attività contrattuale. Nel 1981 ho fatto già un’esperienza confederale: avviammo il primo progetto in Italia di una Federazione dei Consumatori, una esperienza unitaria CGIL CISL UIL insieme alle centrali cooperative. Ho seguito le prime esperienze di autogestione: avevamo un dipartimento per l’autogestione, a quei tempi in confederazione, e anche un centro di promozione delle esperienze di cooperazione e di autogestione.
Poi sono tornato in categoria nel 1983, sono diventato segretario nazionale, responsabile dell’organizzazione e poi della contrattazione; nel 1995 segretario generale di questa categoria degli alimentaristi, una categoria direi in prima fila sulle esperienze contrattuali di segno innovativo, partecipativo forse no, collaborativo sicuramente sì, all’interno delle aziende. Sono stato presidente di una federazione sindacale europea, l’EFFAT, che raggruppava settore agricolo, alimentare e del turismo.
E adesso da circa dieci anni sono in confederazione, ho fatto il coordinatore del dipartimento contrattazione; abbiamo attivato con la collega Anna Rosa Munno questo osservatorio sulla contrattazione di secondo livello, attuale mia attività.
Come valuta il livello di partecipazione dei lavoratori nel contesto italiano in ottica comparata rispetto ai competitors europei e con particolare riferimento all’area renano-scandinava?
La differenza più evidente è la mancanza di un sostegno legislativo forte come, invece, esiste nelle esperienze di quei Paesi. La partecipazione in Italia non ha forme formalizzate come la presenza nei consigli di sorveglianza e amministrazione.
Qui la genesi di esperienze partecipative, o forse più collaborative che partecipative, è quasi totalmente di matrice contrattuale. Abbiamo una legislazione, da questo punto di vista, con molti progetti di legge e molte deleghe al governo che poi si sono perse per strada e arenate; alcune le abbiamo viste con favore e appoggiate come l’ultimo progetto bipartisan di Treu e Castro che per noi era un riferimento importante che poggiava molto sull’attuazione attraverso la contrattazione. Intreccio tra partecipazione e contrattazione che per noi rimane un aspetto fondamentale.
Nonostante la storica scarsa propensione della CISL per gli interventi legislativi, su questo terreno abbiamo maturato da tempo che un supporto legislativo è assolutamente necessario.
Quindi, dove possiamo parlare di esperienze partecipative, ce le abbiamo attraverso comitati, gruppi misti che in alcuni casi hanno un impatto sulle scelte strategiche delle imprese, ma più che forme di partecipazione vera e propria, sono più una estensione, un completamento, un perfezionamento dei diritti di informazione e consultazione su una base un po’ più strutturata.
Spesso abbiamo uno sviluppo di forme partecipative -o ripeto forse più propriamente collaborative- di natura informale; per esempio, in tutta questa lunga fase di crisi, gli accordi che si sono occupati di gestire situazioni di crisi non si sono occupati soltanto della parte degli ammortizzatori sociali o della gestione quanto più possibile indolore dell’uscita dei lavoratori o loro ricollocazione, ma anche di un riposizionamento strategico dell’impresa sul mercato. Quindi c’è stato in questo caso un coinvolgimento più forte in ambito di piani industriali, scelte strategiche, nuovi mercati e investimenti che hanno portato a scelte diverse sull’organizzazione del lavoro, utilizzo degli impianti ecc…
Però molto spesso questa forma di maggior coinvolgimento anche di tipo strategico non sempre è stata cristallizzata in accordi, rimanendo una prassi informale senza una cornice di riferimento formalizzata. Questa è la differenza principale rispetto ai Paesi nordici e scandinavi.
Partecipazione e contrattazione, quale il legame e quali le distinte aree di competenza? Quale il ruolo della partecipazione diretta?
In Italia il cosiddetto doppio canale non ha mai funzionato propriamente: spesso non ci si è creduto. Questa distinzione tra struttura partecipativa e contrattuale all’interno di una stessa azienda non ha mai fatto presa sulla cultura nel contesto italiano.
L’unico settore in cui si è realizzata è quello della bilateralità, dove c’è un canale di esperienza addirittura cogestionale: enti bilaterali cogestiti con consigli di amministrazione paritetici. Esperienza in strutture rilevanti quali gli enti per la previdenza, di formazione o assistenza sanitaria con fatturati imponenti, ma fuori dall’impresa.
Dentro l’impresa questa separazione non si è mai realizzata; ci sono state delle esperienze di attivazione di comitati bilaterali, disegnati anche nella struttura contrattuale in maniera molto chiara con compiti distinti, precisando che non avevano natura contrattuale. Poi però si è creata una sorta di conflitto tra la RSU o RSA titolare della contrattazione con a volte difficoltà di comunicazione: qual è il soggetto che conta, quello che fa contrattazione o quello che fa partecipazione?
Nel contesto italiano attuale faccio fatica a individuare un disegno di netta separazione tra dimensione partecipativa e contrattuale: se la contrattazione vuol avere un ruolo più rilevante a livello di strategie aziendali, deve avere gli elementi di conoscenza. O esiste –non è il nostro caso- una macchina perfetta di comunicazione tra dimensione partecipativa e contrattuale, o altrimenti la netta separazione alla fine depotenzia entrambe. L’una non può, l’altra non sa.
La sinergia deve riguardare quindi sia l’istanza partecipativa che quella contrattuale, creando un collegamento stabile, strutturato e organizzato (si veda, ad esempio, l’esperienza dei CAE che spesso si trasformano in club con molte conoscenze ma senza uno scambio costante e formalizzato con le istanze contrattuali delle Federazioni nazionali).
Bisogna inoltre investire in formazione massiccia, in particolare in formazione congiunta, poiché molto spesso il corto circuito sui canali partecipativi si realizza proprio a livello del management: magari c’è la direzione centrale che ci crede, il management intermedio che lo vede come una potenziale minaccia ai propri ambiti di potere.
Quindi un progetto di questo tipo nasce se ha una condivisione e una comprensione a monte da parte della struttura manageriale e della struttura sindacale ai vari livelli. Un terreno molto impegnativo che ci aspetta.
Per quanto riguarda la partecipazione diretta, in questo momento forse è l’ambito di maggiore opportunità che abbiamo; tra l’altro c’è un congiuntura favorevole con il recente decreto dal pregio, sul quale abbiamo cercato di lavorare -seppur informalmente- con i tecnici della Presidenza del Consiglio, di riconoscere un plus di agevolazione fiscale per le realtà aziendali in cui si realizza un intervento sull’organizzazione del lavoro con il coinvolgimento dei lavoratori.
Non c’è dubbio che questo è il punto principale sul quale il lavoro può dare un contributo di proposta, poiché esiste un sapere organizzativo dei lavoratori che però non è canalizzato, organizzato. C’è bisogno in tal senso di accordi che diano dignità a questa espressione di esperienza e di conoscenza, strutturandola partendo da un Piano, un progetto di coinvolgimento sull’organizzazione del lavoro con un’azione preliminare formativa, anche in questo caso di tipo congiunto.
Credo che la partecipazione diretta abbia nell’organizzazione del lavoro il suo potenziale più elevato e può avere anche un impatto sull’innovazione organizzativa aziendale che tutti i principali studi europei indicano per il recupero di produttività.
Qual è la fotografia OCSEL della contrattazione di secondo livello da una prospettiva partecipativa?
Risponde Anna Rosa Munno, già collaboratrice in CESOS, da un anno operante in confederazione come supporto dipartimento del mercato del lavoro e gestione/aggiornamento OCSEL.
OCSEL ad oggi conta circa 5.000 accordi, non un semplice archivio, ma un osservatorio di monitoraggio e analisi degli accordi dal punto di vista di tutti gli istituti contrattuali, compresa la partecipazione aziendale.
I dati in tal senso non sono confortanti: dal 2009, anno di partenza OCSEL, soltanto il 4% degli accordi ha regolamentato la partecipazione
Di questo 4%: una minima percentuale, il 2%, ha riguardato l’acquisizione di azioni da parte dei lavoratori, dovuta anche all’effetto della gestione delle crisi aziendali e conseguenti eventuali acquisizioni di azioni per rilevare l’azienda.
Il 25% l’istituzione di commissioni paritetiche per la valutazione delle scelte strategiche aziendali.
L’81% non ci ha specificato il dato, il contenuto dell’accordo.
Il settore in cui è stata maggiormente regolamentata la partecipazione strategica è il metalmeccanico (32%), seguito dall’alimentare e agroindustriale (15%), amministrazione pubblica (13%), chimici e affini (12%) e a seguire gli altri settori con percentuali dal 7% all’1% nelle aziende di servizi.
L’area dove si contratta maggiormente la partecipazione è il nord Italia e prevalentemente in aziende di grandi dimensioni; nel 2% di contratti con azionariato dei lavoratori troviamo invece anche aziende di piccole e medie dimensioni.
Quali le prioritarie direzioni strategiche partecipative auspicabili?
L’opportunità di un salto di qualità d’intervento contrattuale e anche di promozione della partecipazione potrebbe venire da questo: noi recentemente, dopo una fase di divisioni sull’impostazione dei modelli contrattuali, abbiamo ritrovato un filone di elaborazione unitaria nel documento comune CGIL CISL UIL di gennaio sulle linee di un nuovo sistema di relazioni industriali. E uno dei tre pilastri centrali, fortemente sostenuto dalla nostra organizzazione, è costituito proprio dalla partecipazione, insieme alla contrattazione e alle regole.
La partecipazione viene coniugata in tre dimensioni, che a mio avviso costituiscono la filiera logica dello sviluppo partecipativo:
- Partecipazione di tipo strategico, anche detta di governance, che va ad individuare strumenti/sedi/prassi di coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte strategiche dell’impresa e che necessita particolarmente del sostegno legislativo sulla linea del legame contrattazione/partecipazione; la partecipazione strategica è propedeutica alle altre due tipologie partecipative, non immaginabili, se non marginalmente e comunque a valle, senza il coinvolgimento a questo livello.
- Partecipazione organizzativa, forse la più diretta come già detto prima, vede in prima battuta il coinvolgimento nell’organizzazione del lavoro, quindi nell’articolazione degli orari, nell’utilizzo delle professionalità ecc…
- Partecipazione economico-finanziaria che a nostro avviso non ha senso senza le precedenti e che oggi prevalentemente si manifesta sotto forma di premi di risultato, forma abbastanza parziale; se dovessimo immaginare forme di coinvolgimento anche sul piano azionario o di partecipazione agli utili (quest’ultima agevolata fiscalmente dal recente decreto), dovremmo contestualmente formalizzare le modalità di partecipazione negli organismi di controllo con un fondamentale sostegno legislativo in tal senso.
Il documento unitario considera, dunque, la partecipazione come una prospettiva strategica di evoluzione del ruolo del sindacato con una nostra apertura, più marcata che in passato e non soltanto in questo ambito, a interventi legislativi di sostegno. Il decreto legislativo apre una strada, seppur in maniera abbastanza limitata, ma importante. Allo stesso tempo la contrattazione deve fare un salto di qualità in ottica partecipativa: non vanno più bene gli accordi “fotocopia”, ogni accordo deve partire da un’analisi del contesto in termini di situazione economica, finanziaria, di mercato, organizzativa, tecnologica e di patrimonio professionale di un’impresa per poi attuare una fase propositiva. Salto che nasce quindi dalla conoscenza, dalla capacità di analisi contestuale e di fare proposte, assumendone la responsabilità.