Sono oggi appena entrato nella fase di abbandono del lavoro e di quiescenza, anche se riflessioni e ripensamenti delle esperienze pregresse non mi abbandonano, unitamente ad una rete di relazioni (ex studenti, colleghi docenti, manager, amici e così via …) che coltivo senza esitazioni. Ho insegnato per quasi quarant’anni (Bologna, Napoli, Milano, Modena) economia ed organizzazione aziendale e soprattutto dei servizi; relazioni di lavoro; ho intrattenuto rapporti con qualche centinaio di imprese, grandi e piccole, di servizi e distribuzione, di produzione industriale. Ciò che ora posso rendere disponibile è la conoscenza di innumerevoli “storie” aziendali con le loro relazioni sociali, soprattutto di lavoro e sindacali. Ho conosciuto pressoché tutte le esperienze e gli sviluppi di partecipazione aziendale, tentate, riuscite e non, così come ho seguito con alcuni studenti dell’Università le più recenti e, forse, le più compiute, attraverso attività di ricerca e di tesi di laurea.
Il tema della partecipazione aziendale dei lavoratori è argomento economico, organizzativo e sociale: attraverso il suo approfondimento ho incrociato sia i comportamenti sindacali e di lavoro (ma anche manageriali e imprenditoriali) più o meno pregiudizialmente antagonistici così come quelli tendenzialmente cooperativi. Gli accordi di lavoro sono stati e sono spesso origine di una ricerca di miglioramento delle condizioni di produzione e dei rapporti di lavoro. Ho imparato dalle esperienze conosciute che nessuna tra di esse può essere assunta a paradigma o a modello replicabile. Non ho riscontrato una sola modalità replicabile in situazioni aziendali e organizzative tra di loro differenti. Ho trovato, spesso, in realtà di contesti diversi (e non certamente soltanto per ambito produttivo) anche differenti soluzioni a problemi e relazioni contingenti, contestualmente ricercate, e spesso ritrovate, tra gli attori negoziali: denominatore comune, spesso, è stata la consapevolezza della convenienza (organizzativa ed economica) della cooperazione tra attori d’impresa. Ho conosciuto ed interloquito con molti dirigenti sindacali, aziendali, di settore, confederali: difficile, oggi, superare una logica di organizzazione (di “bandiera”) a vantaggio della ricerca cooperativa di soluzioni. Si veda, per restare agli ultimi tempi, come sia difficile la discussione sulla rappresentanza sindacale ed offrire uno sviluppo unitario (anche con le organizzazioni degli imprenditori) del dibattito sull’attuazione degli artt. 39-40 della Costituzione o sulle regole fattuali della rappresentanza, o della ricerca della produttività, o delle pratiche partecipative o solidaristiche. Ma, che dire?, spero di avere ancora un po’ di tempo per occuparmene.
La sua definizione di democrazia in azienda ?
Un’organizzazione aziendale (qualsivoglia …) per sua natura chiede la cooperazione tra attori d’impresa. Il problema di ogni organizzazione è “costringere” (spingere, ma anche vincolare) gli attori a cooperare. Senza vincoli alla libertà individuale in tema di intelligenza, di sforzi e di risorse individuali impiegate, che non siano (preventivamente) accettati dagli attori; senza limiti di ruolo, di garanzia; attraverso regole e comportamenti accettati e sviluppati; senza sconfinare dalla libertà degli individui nell’individualismo (opportunismo); accettando di esplorare e gestendo gli scarti tra scelte aziendali (e manageriali) e regolazione formale, tra quest’ultime e comportamenti reali dentro la vita dell’organizzazione.
E il suo punto di vista sulla democrazia in azienda ?
In una determinata azienda il “terreno di gioco” della democrazia aziendale è dato dal contesto economico aziendale, dal mercato di riferimento (produzione, modello organizzativo, tessuto culturale) dal territorio e dal contesto sociale di riferimento. Le relazioni tra attori costituiscono il tessuto connettivo di riferimento: esse sono comunque relazioni di potere (“su” qualcuno, “con” qualcuno, comunque originali, non replicabili, “intransitive”); strutturano il potere organizzativo in azienda. Tuttavia, pur apparendo relazioni partecipative più funzionali al coordinamento tra attori e tra funzioni, di relazioni antagonistiche, esse non possono essere assunte come condizione “politicamente corretta” di un approccio organizzativo (o culturale). Esse saranno sempre legate alle singole caratteristiche di collaboratori e di capi, organizzative, esperienziali, competenziali, culturali e così via. Ben sapendo che già la cultura ed i comportamenti sociali costituiscono un risultato caso per caso non replicabile dell’interazione tra attori. Anche la storia e lo sviluppo di un’azienda (nel suo mercato) costituiscono caratteristica specifica e specificizzante di qualsiasi forma di democrazia e di partecipazione in azienda. Ciò determina, a mio modo di vedere, almeno tre ordini di conclusioni: 1) la democrazia e la partecipazione aziendali non possono essere “insegnate”; anche un management “religiosamente” impegnato a sviluppare la partecipazione ai collaboratori non potrà mai andare al di là della predica di buoni sentimenti: la cultura costituisce “l’esito” dell’interazione tra attori, non è un “presupposto” dell’organizzazione aziendale, il management non può presumersi (a fin di bene?) una sorta di “minculpop” di una cultura aziendale. 2) Cooperazione o partecipazione non sono un bene in sé, ma unicamente costituiscono il risultato comportamentale “conveniente” dell’azione degli attori (tutti, capi e collaboratori) nell’organizzazione. 3) Molte sono le forme di partecipazione possibili: ogni contesto aziendale potrà scegliere quelle che gli attori (impresa, management, rappresentanti sindacali, collaboratori) riterranno consona alla propria esperienza (storia, organizzazione; impresa pubblica e privata; società di capitali o di persone o cooperativa; modello organizzativo, settore produttivo e di mercato): partecipazione organizzativa, partecipazione alla gestione, Mitbestimmung, partecipazione finanziaria (azionaria) al rischio, partecipazione economica (retribuzione variabile in ragione del reddito e della produttività), partecipazione culturale, forme di welfare mutuo/solidale, e così via. Si vedano in proposito gli scritti di Guido Baglioni (Democrazia impossibile, 1995) e di Pietro Ichino (www.pietroichino.it) oltre alle esperienze aziendali e di relazioni aziendali di maggiore o minor successo degli ultimi dieci anni in Italia (Volkswagen, Gucci, Metalcam-Tassara, Alitalia, Electrolux-Zanussi, Dalmine, Luxottica, per citarne alcune). Utile sarebbe conoscere anche alcune esperienze europee (Germania, Svezia, con una tradizione e con una legislazione facilitante la partecipazione sociale; Francia, Israele), tutte molto legate al contesto storico e sociale, in Italia e all’estero.