Intervista a Pierangelo Albini (Confindustria)

foto AlbiniLa partecipazione dei lavoratori costituisce da tempo un pilastro centrale in molti contesti esteri (in particolare dell’area renano-scandinava) che ne hanno saputo fare un fattore strategico in ottica di competitività economica e inclusione sociale; contesti che si distinguono sullo scenario globale per relazioni industriali costruttive e finalizzazione comune verso l’interesse primario aziendale. Quali le potenzialità socio-economiche?

La partecipazione dei lavoratori è uno di quei temi che inevitabilmente suscita sentimenti e opinioni contrapposte, ma affermare che essa sia il pilastro centrale della competitività della Germania dei paesi scandinavi è una “forzatura” della realtà.

Le analisi scientifiche, condotte soprattutto sul caso tedesco, forniscono risultati non conclusivi sul fatto che i vantaggi della Mitbestimmung siano ampiamente dimostrati, che la codeterminazione effettivamente migliori la produttività e la competitività delle imprese in cui essa è praticata. E, quando tali effetti vengono rilevati, la dimensione risulta modesta e in diminuzione negli ultimi 10-15 anni.

Nel dibattito in corso in Italia (e in Europa) si cerca, inoltre, di accreditare l’idea che la codeterminazione sia un fatto pacificamente accettato da tutte le parti in causa. Certamente è un aspetto radicato del modello di economia sociale di mercato che caratterizza l’assetto istituzionale tedesco, ma di qui a pensare che le imprese tedesche la condividano pienamente ce ne corre. Le imprese tedesche hanno imparato a convivere con la codeterminazione, ma più volte ne hanno avversato manifestamente la validità, fino a contestarne la costituzionalità davanti alla Corte costituzionale federale (1978-79), in una causa, perduta, che ebbe grande risonanza politica in Germania. Anche attualmente la Confindustria tedesca rimane a favore di una revisione della normativa, uno dei punti dovrebbe essere abbandonata la rappresentanza paritetica nei consigli di sorveglianza, per una rappresentanza tra un terzo e meno del 50%.

Quali gli elementi che ne hanno impedito il decollo in Italia?

In Italia non ci sono ostacoli normativi o giuridici che impediscano accordi di partecipazione nelle imprese, anzi ci sono tutti gli strumenti necessari. Se non se ne è mai fatto nulla evidentemente è perché non solo le imprese, ma anche il sindacato ha considerato la partecipazione – almeno nelle forme in cui ne stiamo discutendo – non consona al sistema di relazioni sindacali. La nostra storia sindacale e’ stata differente e le nostre relazioni sindacali spesso conflittuali e antagoniste non potevano che produrre modelli di partecipazione deboli. Il sindacato italiano non ha mai realmente voluto oltrepassare la linea di confine che porta nella “stanza dei bottoni” e non ha mai nemmeno rivendicato una simile prospettiva per i lavoratori . Evidentemente c’è stata, almeno finora, la percezione che i vantaggi netti di una tale operazione siano incerti.

E questa diffidenza non è solo italiana. Un serio e relativamente recente paper scientifico dell’IZA (Forschungsinstitut zur Zukunft der Arbeit, uno dei quattro centri tedeschi ufficiali e indipendenti di ricerca e analisi economica) che passa in rassegna la letteratura su costi e benefici della Mitbestimmung si intitola: “Worker Directors: A German Product that Didn’t Export?”

Quali le prioritarie strategie a livello legislativo e di parti sociali, complementarmente ai temi della rappresentanza e della contrattazione, per una riforma sistemica delle relazioni industriali italiane?

Sgombrando il campo dall’idea astratta di importare modelli che sono coerenti con contesti istituzionali e politici molto diversi dai nostri, occorre invece cercare con realismo e pazienza di delineare e percorrere una via italiana alla partecipazione, che sia coerente con i problemi che, come paese, abbiamo davanti in questo momento.

In questi anni la dinamica delle retribuzioni è risultata assolutamente scollegata dalla produttività e dalla redditività delle imprese. Occorre andare verso un nuovo modello contrattuale il quale deve innanzitutto prevedere che la distribuzione di quote di ricchezza aggiuntiva da indirizzare alle retribuzioni debba avvenire solo dove la ricchezza di fatto si produce, cioè in azienda, e tale distribuzione non può che essere strettamente correlata a parametri oggettivi di redditività e produttività delle singole imprese. E questo è un terreno concreto di compartecipazione tra imprese e lavoratori. Si tratta infatti di discutere e condividere aspetti non banali della gestione di impresa, quali i modi e la misura in cui le mansioni svolte dai singoli concorrono a determinare gli obiettivi dell’impresa e i risultati economici conseguenti.

Il contratto collettivo nazionale di categoria dovrebbe governare il processo di decentramento della contrattazione mantenendo un ruolo di regolazione, di garanzia e di tutela, ovvero prevedere trattamenti economici e normativi minimi comuni a tutti i lavoratori.

La dimensione economica è fondamentale nel rapporto di lavoro, ma essa non si esaurisce più esclusivamente nell’erogazione salariale . Dobbiamo valorizzare, ad esempio, gli interventi utili a innalzare la professionalità e le competenze dei lavoratori. Dobbiamo consolidare tutti quei servizi volti a tutelare il tenore di vita delle famiglie, sfruttando la dimensione settoriale, le reti e le sinergie con le realtà aziendali.

Valorizzare le risorse umane significa considerare i cambiamenti intervenuti negli orientamenti dei lavoratori, tenendo conto dei loro nuovi bisogni.

L’identificazione con il proprio lavoro e l’azienda in cui sono inseriti è ben più elevato di quanto non si pensi. In definitiva, i lavoratori percepiscono l’impresa in cui sono occupati un po’ come la loro “seconda casa”, dove sviluppano relazioni sociali, amicizie, identificazione. Quando si realizzano queste condizioni e’ più facile condividere gli obiettivi dell’impresa, i destini. In questo senso la qualità aiuta a superare la mera dimensionse titanica della partecipazione, quella economica e apre a un salto di livello che, appunto, chiede una sorta di condivisione dei rischi insiti nel fare impresa .

Il potenziamento della formazione e delle forme di welfare aiutano ad andare in questa direzione. L’introduzione di forme di welfare aziendale così come sono già ampiamente presenti forme di remunerazione collegate a parametri di redditività e produttività aziendale e’ un fenomeno positivo: Sul quale l’attenzione di Confindustria e’ alta. In tal senso sono assolutamente importanti e positive le misure inserite nella legge di stabilità.

 

 

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