Maurizio Del Conte con DPR 12 gennaio 2016 è stato nominato Presidente della Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro-ANPAL per un triennio e in data 12 settembre è diventato Amministratore Unico di Italia Lavoro. Professore di Diritto del lavoro all’Università Bocconi, Ph.d in Diritto del lavoro e relazioni industriali europei e comparati nell’Università degli Studi di Pavia, già Direttore della Research Unit of Law and Economics Studies del Centro di Ricerca P. Baffi, è stato Visiting Professor alla University of Richmond, School of Law (USA) e alla Kobe University (Giappone). Membro della Policy Unit presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Consigliere giuridico del Presidente del Consiglio dei Ministri dal 2014 al 2016, membro del Comitato Scientifico per l’indirizzo dei metodi e delle procedure per il monitoraggio della riforma del mercato del lavoro presso il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, membro della Consulta degli Esperti costituita dal Presidente della Commissione Finanze della Camera dei Deputati, già consulente per le politiche del lavoro del Comune di Milano, avvocato cassazionista nel Foro di Milano.
La partecipazione dei lavoratori all’azienda rappresenta un concetto che ha trovato differenti livelli di applicazione e incisività in termini di governance nel contesto internazionale. Paesi quali Olanda, Germania, Austria e gli scandinavi Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia hanno scelto di farne un fattore strategico di competitività economica, inclusione sociale e sussidiarietà in un contesto di relazioni industriali coerente con gli obiettivi: qual è il suo punto di vista?
La prima considerazione da fare è che la “partecipazione dei lavoratori” all’impresa trova un preciso riferimento normativo anche nella nostra Carta Costituzionale che, all’art. 46, recita che: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
La norma è rimasta inattuata perché il legislatore non ha mai emanato leggi ordinarie che introducessero i diritti partecipativi dei lavoratori nell’impresa a cui, in maniera generica, la Costituzione fa riferimento. Questo a differenza di altri paesi europei, dove la partecipazione dei lavoratori all’impresa è obbligatoria per legge – come nel caso della Mitbestimmung tedesca – dove si arriva all’adozione di un sistema di governance d’impresa duale che prevede la presenza di rappresentanti nei consigli di gestione e sorveglianza e la creazione di assemblee di lavoratori azionisti. La realtà dei paesi sopra citati- che potremmo chiamare nordici, rispetto a differenti organizzazioni “latine” – rimane un punto di riferimento per quel che riguarda un sistema complessivo di relazioni industriali di tipo partecipativo “forte”, che ha il suo fondamento in una differente struttura economica basata in particolare sulla grande industria e in una differente etica del lavoro, che fonda le sue radici nel Protestantesimo. Gli obiettivi dei lavoratori e delle aziende sono infatti vissuti come complementari, conseguentemente la competitività economica è condivisa allo stesso modo da azienda e lavoratori, dove viceversa la conflittualità ha spesso caratterizzato la storia – in particolare nel nostro Paese e in Spagna – tra imprese e maestranze, come se non si potesse trovare un punto comune al quale tendere.
Come valuta l’attuale livello nel Sistema Italia in ottica comparata, quali le potenzialità inespresse e i rispettivi ostacoli alla radice?
Nel nostro sistema il principio partecipativo è stato perseguito attraverso l’introduzione nei contratti collettivi di discipline che garantiscono al sindacato diritti di informazione e consultazione in funzione di controllo dell’esercizio dei poteri dei datori di lavoro. In pratica ai sindacati viene attribuito per contratto il diritto a essere informati in via preventiva delle decisioni che l’azienda intende assumere su alcune specifiche materie.
Le uniche esperienze aziendali in cui è stata posta in essere la partecipazione organica dei lavoratori – intendo il coinvolgimento in aspetti decisionali e gestionali – sono state il frutto di accordi aziendali che hanno introdotto simili diritti e prassi di relazioni industriali (si pensi, tra gli altri, al Protocollo tra Gruppo Iri e Cgil-Cisl-Uil del 18 dicembre 1984; al Protocollo Zanussi del 1997 e, più di recente, al Contratto integrativo di partecipazione aziendale tra Volkswagen Group Italia e Cgil-Cisl-Uil dell’8 marzo 2016).
Come si vede siamo solo all’inizio di un percorso, e i pochi casi investono grandi aziende; non bisogna infatti dimenticare che il tessuto economico del nostro Paese è formato in particolare da piccole e medie imprese, nelle piccole spesso la partecipazione dei lavoratori alla vita aziendale assume delle forme informali, le medie viceversa a volte scontano una mancata organizzazione degli stessi lavoratori, per cui è necessario valorizzare e incentivare anche per legge le prassi partecipative. Un importante passo in avanti è la Legge 27 dicembre 2013, n. 147 (legge di stabilità 2014) che ha istituito (all’art. 1, comma 180) uno specifico fondo presso il Ministero del lavoro finalizzato all’incentivazione di iniziative rivolte alla partecipazione dei lavoratori al capitale e agli utili delle imprese e per la diffusione dei piani di azionariato rivolti a lavoratori dipendenti. Le modalità e i criteri di utilizzo del fondo sono stati determinati dal decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, del 20 giugno 2016.
La crisi degli ultimi anni ci ha inoltre consegnato una nuova forma di relazione economica tra lavoratori e aziende, le iniziative di Workers buy out, ovvero l’acquisizione del capitale sociale di un’impresa in crisi da parte dei dipendenti. I Wbo, che nascono già negli anni ’80 grazie alla Legge Marcora, consistono nell’acquisizione della maggioranza o della totalità del capitale sociale di un’impresa, generalmente in crisi, da parte degli stessi dipendenti, usando come forma giuridica la società cooperativa e hanno avuto un grande successo anche in Italia, con importanti risultati in termini di salvataggio di posti di lavoro e risparmi per lo Stato sulla spesa in ammortizzatori sociali.
Quali direzioni strategiche perseguire in ambito di politiche attive del lavoro in un percorso di progressiva implementazione e di contestuale crescita dei fattori sistemici?
L’Unione Europea – nella stessa strategia per l’Occupazione seguita al vertice di Lisbona – ha ribadito tra gli obiettivi centrali il legame tra la qualità e la produttività del lavoro e la qualità delle relazioni industriali, all’interno delle quali assume un notevole significato il coinvolgimento dei lavoratori nella formazione delle decisioni manageriali. In un’economia che si sta trasformando molto velocemente a causa della digitalizzazione e delle innovazioni dell’organizzazione del lavoro e delle tecnologie abbiamo la necessità di maggiore mobilità professionale, sia all’interno delle aziende sia all’interno del mercato del lavoro. Le politiche attive sono la risposta a questa esigenza, perché puntano alla conoscenza e all’investimento in educazione e formazione delle risorse umane, in modo da consentire alla persona di transitare da un’occupazione a un’altra – assecondando le richieste sul fronte della domanda di lavoro – garantendo al contempo il sussidio tra un’occupazione e l’altra. Il coinvolgimento dei lavoratori alla vita dell’azienda – nelle sue diverse forme – costituisce un anello di congiunzione fra la dimensione economica e quella sociale, e la maggiore partecipazione collettiva e individuale è un’opportunità per una diversa gestione delle risorse umane, perché conduce a quel consenso sociale che concorre al rafforzamento della competitività delle imprese e dell’economia nel suo insieme, nonché alla creazione di posti di lavoro. Ed è un fatto rilevante che l’esperienza sindacale, e soprattutto la negoziazione collettiva, oggi stanno conoscendo la tendenza, abbastanza diffusa, ad essere considerate non più soltanto strumenti e fonti di tutela di condizioni uniformi di lavoro, ma anche veicolo della produttività e competitività aziendale; questo non solo nelle intenzioni, ovvie, dei datori di lavoro, ma allo stesso tempo in quelle dei rappresentanti dei lavoratori che ne riconoscono il valore strategico in chiave di garanzia dell’occupazione.