Intervista a Mario Sassi

Ci parli di lei…

Dal 2014 sono Direttore Generale CFMT (centro studi, ricerche e formazione per i manager del terziario) dove ne ho rilanciato il ruolo al servizio di oltre 20.000 dirigenti aziendali e 8.000 imprese del comparto. In precedenza in Confcommercio Imprese per l’Italia sia come Assistente del Direttore Generale che come Direttore Centrale delle Politiche del Lavoro dopo una lunga esperienza come Direttore Risorse Umane nel terziario di mercato e nell’industria. In Standa dove ho gestito la ristrutturazione e, successivamente, la selezione, lo sviluppo e la formazione sull’intero  territorio nazionale poi in REWE Italia per oltre dieci anni. Negli anni 90 ho lavorato in Galbani e nel gruppo Danone dove ho implementato innovativi sistemi di gestione delle ristrutturazioni e delle conseguenze sulle risorse umane concordandoli con le organizzazioni sindacali e gestito i progetti di change management del gruppo.

In quegli anni ho avuto modo di impegnarmi all’interno di progetti internazionali di coinvolgimento dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali discendenti dall’importante “double projet économique e social” teorizzato dal CEO di Danone Antoine Riboud di allora che dichiarava, già negli anni 70,  che “la responsabilità di un’azienda non vive solo dentro ai suoi cancelli perché il lavoro che procura condiziona la vita intera degli individui e ci deve sempre ricordare la nostre responsabilità nella società”. Questa, per me, è stata una grande scuola, soprattutto valoriale. Il mio percorso professionale comprende anche una esperienza importante, subito dopo gli studi, nella CISL dove ho potuto lavorare e imparare molto da interlocutori convinti sostenitori della Partecipazione come Guido Baglioni, Gian Primo Cella e Mario Napoli.

A che punto siamo con la partecipazione dei lavoratori in Italia?

E’ un tema che ritorna spesso all’ordine del giorno ma sul quale si fanno pochi passi concreti in avanti. Oggi però ci sono novità interessanti. Mi riferisco innanzitutto al documento di Federmeccanica “Impegno” presentato recentemente a Vicenza dove il tema della importanza del lavoro e della collaborazione ritorna ad essere centrale. Così come, almeno sul piano teorico, la stessa proposta del “Patto di fabbrica” credo vada in quella direzione. Così come i sistemi bilaterali centrali e territoriali quando sono performanti. Sono convinto che se non ci rassegniamo all’affermarsi di una società darwiniana regolata dai rapporti di forza il tema del coinvolgimento, della collaborazione e quindi della partecipazione ritornerà ad essere centrale. Purtroppo lo scetticismo non è solo di una parte del sindacato ma coinvolge anche le imprese che intravedono più i rischi che le opportunità di queste scelte.

E’ possibile rafforzare la cultura della partecipazione in Italia?

Certo che si. Innanzitutto occorre favorire e valorizzare le sperimentazioni. In secondo luogo bisognerebbe favorire tutto ciò che coinvolge il lavoratore nella vita delle imprese. Welfare aziendale, premi legati ai risultati, coinvolgimento sulle strategie, condivisione dei rischi e delle opportunità. La cultura cresce se nascono e si consolidano momenti di condivisione. Le imprese dove i lavoratori si sentono importanti, utili, ingaggiati e quindi parte del successo aziendale vanno meglio delle altre perché il lavoro si sviluppa un clima positivo. Così come quelle dove i lavoratori sono coinvolti anche quando le cose non vanno bene perché insieme si individuano soluzioni, si condividono visioni a medio lungo termine e anche i sacrifici necessari perché è comunque meglio sentirsi parte della soluzione piuttosto che del problema.

Quale ruolo devono svolgere le organizzazioni sindacali e datoriali?

Sicuramente un ruolo determinante. Insieme possono creare le migliori condizioni affinché le sperimentazioni possano effettuarsi e possa crescere una cultura di sostegno importante. Nelle piccole imprese sviluppando i sistemi bilaterali soprattutto sul territorio che supportano aziende e lavoratori nelle loro necessità. Nelle grandi imprese favorendo l’adozione di strumenti e soluzioni condivise per affrontare i problemi che si possono presentare. E’ ovvio che la partecipazione non può essere materia di rivendicazione. È una cultura che deve crescere altrimenti non si va da nessuna parte. Rilevo con grande attenzione i passi in avanti che nel sindacato confederale sta compiendo la CGIL in questa direzione. La recente relazione di Franco Martini è un passo avanti positivo. CISL e UIL su questi temi hanno fatto anche loro dei passi in avanti importanti. Così come in alcune categorie industriali come, ad esempio, i metalmeccanici della FIM CISL. Non credo però ad una partecipazione calata dall’alto dai contratti nazionali o dalla legge. Credo a strumenti concreti che la incentivino e la favoriscano.

Quale potrebbe essere il prossimo passo in questa direzione?

A mio parere occorre superare un equivoco di fondo.  Dove si sono  affermati i modelli partecipativi le logiche conflittuali sono state accantonate. Impresa e lavoro affrontano le nuove dinamiche competitive imposte dalla globalizzazione attraverso la collaborazione. James Thurber ci ricorda che “dobbiamo cercare di non guardarci indietro con rabbia o avanti con paura ma intorno con consapevolezza”. Ecco occorre avere una nuova consapevolezza che ci consenta di riscoprire il valore della collaborazione, dell’impegno comune e di come innovare la nostra capacità di operare sintesi tra interessi diversi. In fondo la partecipazione presuppone importante considerare le ragioni del nostro interlocutore, la sua volontà di capire e di impegnarsi, la sua disponibilità a mettersi in gioco perché l’impresa è prima di tutto un luogo dove si deve creare innanzitutto ricchezza per poi poterla condividere.

 

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