Ci parli di lei…
Sono Ricercatore di Diritto del Lavoro presso l’Università degli Studi di Milano e docente di “Comparative Industrial Relations Law” e di “European Social Law” presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano, ove ho conseguito il Dottorato di Ricerca in Diritto dell’Impresa nel 2013. Sono stato Visiting Phd Candidate presso l’Università di Jena da marzo 2012 ad agosto 2012 e Visiting Scholar presso la ILR School della Cornell University da luglio 2015 a settembre 2015.
Sono autore di saggi e contributi in materia di diritto del lavoro e di relazioni industriali, in lingua italiana ed inglese. In particolare, sul tema della partecipazione dei lavoratori, ho pubblicato una monografia dal titolo “Il nodo della partecipazione dei lavoratori in Italia. Evoluzioni e prospettive nel confronto con il modello tedesco ed europeo” (Egea, 2013), per la quale sono stato insignito del premio “Francesco Santoro-Passarelli” dell’Accademia dei Lincei il 26 giugno 2014, e il saggio “On uses and misuses of worker participation. Different forms for different goals of employee involvement” (in International Journal of Comparative Labour Law & Industrial Relations, 2014, 30, 4, 459-481). Inoltre, nel saggio “Retribuzione di produttività, flessibilità e nuove prospettive partecipative” (in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, 2014, I, 2, 337-372), mi sono occupato della possibile evoluzione delle forme retributive incentivanti (“retribuzione di produttività”) verso una condivisione delle decisioni imprenditoriali strategiche. Da ultimo, ho curato, insieme al Prof. Gaetano Zilio Grandi, oltre al volume “Contratto di Rete e Diritto del Lavoro” (Padova, 2014), il “Commentario Breve alla Riforma “Jobs Act”” (Padova, 2015, di prossima pubblicazione).
Il suo punto di vista sulla democrazia in azienda ?
La democrazia in azienda, intesa quale “democrazia industriale”, è, al pari di quest’ultima e della stessa nozione di “partecipazione dei lavoratori”, concetto polimorfo ed indeterminato, quasi sfuggente, a partire dal piano terminologico.
Potremmo infatti discutere lungamente di “partecipazione”, ma, in assenza di uno sforzo preliminare di restringimento del campo (semantico, prima che concettuale), rischierebbe di rivelarsi uno sforzo vano: non sembrano infatti in sé assimilabili, sul piano funzionale e pure valoriale, nozioni quali “coinvolgimento” dei lavoratori nella gestione dell’impresa, “partecipazione” dei lavoratori agli utili e “partecipazione finanziaria” nella forma della retribuzione variabile, pur afferendo genericamente (ma, appunto, in vario modo) tutti questi strumenti ad un allineamento tendenziale degli interessi dell’impresa e della forza lavoro. Così sembra ci si possa ricollegare a quell’ideale democratico sotteso all’interessante domanda formulata.
A mio parere, la “vera” partecipazione (almeno per chi ha, come me, il modello tedesco come riferimento par excellence), deve necessariamente implicare un diritto di voice – più intenso, nella Mitbestimmung, come il nome stesso suggerisce, più attenuato, nella prospettiva dell’employee involvement propria del legislatore europeo – dei lavoratori nelle scelte aziendali.
Né, peraltro, se si aderisce ad una simile lettura, si può escludere che i lavoratori in qualche modo “partecipino” o abbiano voce nelle decisioni delle imprese attraverso strumenti diversi dalla partecipazione “istituzionale” (quella realizzata tramite appositi organi a livello aziendale, come il Betriebsrat tedesco, e/o attraverso l’ingresso di rappresentanti nelle “stanze dei bottoni”, ossia negli organi societari delle grandi imprese), ovvero nelle forme e nei modi della contrattazione collettiva: proprio a quest’ultima i coniugi Webb si erano riferiti nell’impareggiabile saggio “Industrial Democracy”, pubblicato nel lontano 1898. Non a caso, autorevoli voci (tra cui Gino Giugni), al culmine delle discussioni sulla democrazia industriale negli anni ’70, avevano fatto notare come la contrattazione collettiva potesse esprimere la posizione dei lavoratori e incidere sulle scelte e sulle strategie aziendali ancor più della partecipazione stessa.
Quali strategie ritiene prioritarie nel contesto italiano e quali i vantaggi socio-economici di una maggior partecipazione dei lavoratori nella creazione e distribuzione meritocratica del valore aziendale?
Difficile dire, per un giurista, quali possano essere i vantaggi economici della partecipazione e se questa possa essere la “ricetta” per il recupero di una stagnante produttività delle imprese italiane. Del resto, in Germania ci si interroga da molto tempo circa l’effetto del sistema partecipativo sulla performance delle imprese: i risultati empirici noti sono di segno ambivalente, o comunque non decisivi in un senso (convenienza sul piano dell’efficienza) o nell’altro (inutile appesantimento burocratico).
Peraltro, va segnalato come il recente caso Volkswagen abbia gettato alcune ombre sull’efficacia della Mitbestimmung nel prevenire comportamenti illeciti da parte del management, venendo da più parti denunciata l’ambiguità del ruolo dei rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio di Sorveglianza, quali potenziali “collusi” in una mala-gestio invece che “garanti” della correttezza delle decisioni strategiche. Anche per questo, parrebbe forse più corretto approcciarsi al tema con uno spirito orientato a privilegiare il piano valoriale, seguendo così la suggestione circa una “partecipazione meritocratica”.
Invero, oggi più che mai sembra necessario interrogarsi sul modello di impresa verso il quale si dovrebbe tendere: un’impresa orientata al breve periodo tesa alla valorizzazione e al ritorno immediato del valore (capitale) investito dagli azionisti non può che vedere i lavoratori come – mere – controparti contrattuali, cui non avrebbe senso riconoscere alcun diritto di voice, se non, appunto, attraverso la contrattazione collettiva, luogo di (scontro e successivo) incontro di interessi contrapposti; di converso, nell’ambito di un’impresa vista quale istituzione sociale, al cui interno ricomprendere e considerare, tanto gli interessi degli azionisti/investitori, quanto quelli di altri soggetti, come i lavoratori (non necessariamente su un piano di parità, come insegna l’esperienza tedesca, ove viene pur sempre assicurata la “leggera prevalenza” – leichtes Űbergewicht – dei rappresentanti degli azionisti negli organi societari), si potrebbe riconoscere in capo a questi ultimi un diritto di voice sulle scelte “comuni”.
In sostanza, come osservato altrove, si tratterebbe di passare da un diritto societario a un diritto dell’impresa (vom Gesellschaftsrecht zum Unternehmensrecht), quale – unico? – prologo per riconoscere ai lavoratori una partecipazione finalmente – riprendendo il titolo di una recente ricerca – “incisiva” nell’ambito del processo decisionale di una compagine societaria “allargata”.
Certo, ci si potrebbe poi chiedere anche quali lavoratori coinvolgere in un simile progetto: posto che, come l’esperienza tedesca insegna, le fasce di lavoro atipico e precario (in primis, i famosi “mini-jobbers”) restano fuori dal sistema della Mitbestimmung, una – ancora eventuale – “scommessa” del legislatore italiano sulla partecipazione dei lavoratori sembra passare dalla vittoria della principale “scommessa” del Jobs Act, ossia la promozione dell’impiego standard (subordinato e a tempo indeterminato).