Ci parli di lei…
Laureato in Economia e Commercio nel lontano 1967 presso l’Università La Sapienza di Roma nel lontano 1967: sono stato allievo, tra gli altri, di Pietro Onida (relatore della tesi di laurea circa l’uso dei calcolatori elettronici in una Banca di medie dimensioni), Federico Caffè, Giuseppe Murè e Amintore Fanfani. 37 anni di Banca Popolare di Milano, da impiegato fino a Direttore Marketing e Commerciale, vicario del direttore generale. Membro del consiglio di Amministrazione dal 2009 al 2011 e del Consiglio di Sorveglianza nel biennio 2011/2013. Successivamente ho svolto attività di consulente di strategia di management con Silvio Rubbia oltre che per conto di CGIL – Roma e Lazio. Una vita spesa nel settore bancario: ancora oggi nel direttivo di APB, associazione per la pianificazione in Banca.
Ho vissuto i cambiamenti genetici che il sistema bancario ha dovuto affrontare negli ultimi 60 anni partendo dal rigido dirigismo autorizzativo della Banca d’Italia e dalla esistenza del “cartello bancario” che definiva le condizioni e le commissioni che tutte le banche “dovevano” applicare; passando attraverso la liberalizzazione e l’apertura delle “frontiere”(1992) per arrivare ai processi di progressiva digitalizzazione, alla interminabile crisi post-Lehman oltre che allo scoppio della pandemia: insomma una grande trasformazione dalla “foresta pietrificata” ad oggi
La partecipazione dei lavoratori, pilastro portante in significativi contesti esteri quali Germania-Austria-Olanda-Scandinavia, caratterizza le relazioni industriali e la governance aziendale in termini finalizzazione verso l’interesse primario aziendale, solcando la differenza rispetto al “breveterminismo” della shareholder theory e riducendo/annullando la distanza tra mondo cooperativo e società di capitali. Quali le potenzialità sociali ed economiche?
Voglio premettere che la BPM, una cooperativa nata nel 1865 e che si è estinta il 31/12/2016 con la fusione con il Banco Popolare e la contemporanea trasformazione in spa dando vita al Banco- Bpm, rappresentava un caso unico nel panorama delle banche popolari Italiane (e probabilmente mondiali). Infatti, lo statuto della Banca– oltre alle tipiche caratteristiche delle popolari e cioè il principio del voto capitario (una testa un voto) ed il gradimento per l’ammissione di nuovi soci – non prevedeva la possibilità per i soci di rilasciare deleghe per la partecipazione alle assemblee. Poiché i dipendenti ed i loro familiari (compresi i figli minori – unica delega possibile per statuto) erano quasi tutti soci e presenziavano in massa alle assemblee, ne discendeva per i dipendenti l’assoluta capacità di “pilotare” l’assemblea, nonostante che i soci avessero raggiunto il numero di centomila. I dipendenti soci in servizio eleggevano un organismo chiamato originariamente Comitato Elettorale che aveva il compito di comporre e presentare per l’approvazione dell’assemblea la lista dei componenti Consiglio di Amministrazione, oltre a dialogare con lo stesso Consiglio di Amministrazione e con la Direzione, esprimendo il parere, sostanzialmente vincolante, sulle operazioni straordinarie. La Banca cioè era cogestita, il potere decisionale era basato sull’equilibrio dei poteri tra Consiglio di Amministrazione, Direzione e Comitato Elettorale, i cui membri erano espressioni dei sindacati presenti in azienda (l’autonomo Fabi, oltre i confederati Fisac-Cgil, Uib-Uil, Fib-Cisl).
L’originaria vocazione, dovuta al fondatore Luzzatti, di attenzione alle classi più umili si è trasformata con il tempo in un forte orientamento verso le famiglie e le piccole e medie imprese, soprattutto nel milanese, nel Varesotto e nella Brianza. In questi distretti la banca è stata protagonista assoluta del boom economico degli anni 60 con un forte scambio con il territorio, con gli enti locali (molte le tesorerie gestite) e con la società civile.
Il gruppo raggiungerà una dimensione di tutto rispetto nel panorama italiano con circa 8000 dipendenti, eccellenze in alcuni settori strategici come il risparmio gestito (Anima) e banca on line (Webank, la prima banca italiana on line del quale sono stato co-fondatore) ma non perderà mai la mission di privilegiare il rapporto con le PMI e le famiglie, basandosi sulla centralità del cliente e sulla forte adesione agli obiettivi aziendali da parte dei dipendenti.
L’interesse primario aziendale era ben presente nei dipendenti-soci: le dimensioni allargate e la scelta ‘storica’ della quotazione in borsa non avevano trasformato la banca in una impresa tesa alla massimizzazione del profitto, le caratteristiche di democrazia economica che la permeavano spingevano verso il bene “dell’azienda” basata sulla soddisfazione dei soci, dei clienti, dei dipendenti, dei clienti e della società civile.
Quali gli elementi ostacolanti il generale pieno decollo partecipativo in Italia – sia in ambito cooperativo che di società di capitali – e le necessarie strategie sistemiche a livello legislativo e di parti sociali?
L’articolo 46 della Costituzione Italiana prevede espressamente che “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
E’ noto che quest’articolo non si è mai concretizzato in leggi organiche sostanzialmente per due ordine di motivi: il primo è rappresentato proprio dal dettato costituzionale, che risulta abbastanza generico nella parola “collaborazione”; il secondo è stato il modello di relazioni industriali dominante in Italia, caratterizzato, oltre all’iniziale forte differenza ideologica delle principali confederazioni sindacali, da una marcata impostazione conflittuale tra le parti e dal ricorrente pensiero che solo la contrattazione potesse significare autonomia nello svolgimento delle reciproche attività : di gestione e di organizzazione del lavoro da parte degli imprenditori e di possibilità dissenso da parte del sindacato.
Ad oggi, nonostante le frequenti aperture da parte di politici e di studiosi e di alcune iniziative specifiche a forme più coinvolgenti di partecipazione alle decisioni aziendali da parte dei lavoratori, questa forma di democrazia economica è ancora sostanzialmente basata da una parte sullo statuto dei lavoratori e dall’altra sulla introduzione nei contratti collettivi di norme che garantiscono al sindacato diritti di informazione e di consultazione su determinate materie: rimane cioè sostanzialmente una partecipazione “a posteriori ed esterna” in quanto la decisione ultima viene raggiunta attraverso una trattativa fra rappresentanti dei lavoratori ed impresa.
Un breve excursus storico conferma questa situazione. Infatti, la prima forma di coinvolgimento dei lavoratori nelle aziende, dopo la caduta del fascismo, fu la elezione delle Commissioni interne (da parte di tutti i lavoratori, iscritti o no ai sindacati), reintrodotte nel 1943 con il “patto Buozzi-Mazzini” sottoscritto dall’allora unitaria Confederazione dei lavoratori dell’Industria e dalla Confederazione degli industriali.
A partire dagli anni 60 le commissioni interne, che avevano il potere di contrattazione collettiva a livello aziendale, furono affiancate ed in molti casi sostituite dai consigli di fabbrica: i delegati eletti in questo caso erano rappresentanti di gruppi di lavoratori caratterizzati dallo svolgere le attività nello stesso stabilimento o nello stesso reparto o nella stessa linea di produzione.
Con lo Statuto dei lavoratori (maggio 1970) è stato infine concesso il diritto di costituire – nelle unità produttive con minimo 15 dipendenti , per il settore bancario sono sufficienti 8 lavoratori – una Rappresentanza Sindacale Aziendale (RSA, sostituita successivamente agli inizi degli anni 90 dalla RSU, Rappresentanza Sindacale Unitaria, tranne che nel settore bancario ed in quello assicurativo), e che oggi può essere costituita ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
Gli argomenti di competenza delle rappresentanze dei lavoratori sono rimasti sostanzialmente solo quelli legati alla contrattazione decentrata: anche nel settore bancario è stato fatto di recente qualche passo in avanti soprattutto sul welfare contrattuale ed aziendale, a fronte della minore tutela offerta dal welfare pubblico, anche se con qualche rischio di accrescere le distorsioni già esistenti.
Inoltre, la tendenza alla verticalizzazione e la riduzione del decentramento organizzativo stanno provocando anche nei sindacati un analogo fenomeno: la possibilità di dialogo con l’azienda è sempre più concentrata nelle mani di poche persone, anche loro lontane fisicamente dai luoghi di lavoro e non sempre in grado di conoscere i problemi quotidiani delle filiali e delle “sale macchine”, viste anche le difficoltà di contatto personale enfatizzate dalla pandemia e dallo smart working.
Evidentemente per uscire da questo stallo è necessario che – anche in nome della sostenibilità ambientale e sociale – venga perseguita da tutti gli attori (imprese e sindacati in primis, politica, università eccetera) la ricerca di un nuovo modello di sviluppo, rispettoso delle risorse del pianeta, dell’equità sociale, dei diritti umani e basato sulla democrazia economica, oltre che politica. La commissione europea con la sua risoluzione del governo societario sostenibile e la finanza etica lasciano ben sperare, ma è ora che alle parole seguano i fatti. Insieme agli amici con i quali abbiamo combattuto contro la legge Renzi che ha trasformato in spa le banche popolari con attivi superiori agli 8 miliardi, stiamo costituendo un comitato promotore di un’associazione che abbia come obiettivo la partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche delle imprese: siamo convinti che nonostante le affermazioni di politici e sindacalisti, ed anche delle stesse aziende, la strada è ancora molto impervia: basta leggere le affermazioni degli amministratori delegati sulle trimestrali per capire quali siano gli obiettivi perseguiti nell’attività di tutti i giorni !
Osservazioni e proposte da condividere, per tornare a vivere lo sviluppo del sistema socio economico in modo equo e capace di sviluppare le risorse oggi compresse che si limitano a coprire posizioni verticistiche solo per rispettare le varie norme giuridiche e/o statutarie. In sostanza si tratta in molti casi di posizioni bandiera incapaci di organizzarsi e pianificare il futuro del mercato e delle sue esigenze. Chiara esposizione da sviluppare a breve.