Sono Professore Associato di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Sin dal mio Dottorato di ricerca in Scienze Antropologiche ed analisi del mutamento culturale, svolto presso l’Università di Napoli l’Orientale, mi sono occupata del tema del lavoro, con una ricerca etnografica sull’insediamento FIAT-SATA di Melfi (PZ).
Ho partecipato, negli anni dal 2004 al 2006, ad una ricerca internazionale sul tema della bassa fecondità italiana, diretta dalla Brown University di Providence, dove ho svolto anche una fellowship, partecipando alle attività del locale Population Studies and Training Center. Sono membro del collegio del Dottorato di Ricerca in Antropologia culturale e sociale dell’Università di Milano Bicocca, intrattengo un’interlocuzione sui temi del lavoro e delle relazioni industriali con l’Istituto Gramsci di Sardegna e con la sua direttrice, la sociologa Sabrina Perra dell’Università di Cagliari, e ricopro l’insegnamento di Antropologia dell’impresa e del lavoro, nuovo per l’Italia, entro il Corso Laurea Magistrale inter-disciplinare SAGE (Scienze Antropologiche e Geografiche), che consorzia diversi Atenei del Mezzogiorno. Sono approdata, in questi ultimi anni, al progetto di ricerca sul caso industriale di Automobili Lamborghini attraverso la frequentazione del Dipartimento di Economia Marco Biagi dell’Università di Modena e del locale centro di ricerca e formazione Officina Emilia, diretto fino al 2018 dall’economista dei distretti industriali Margherita Russo. Questo ci ha portato a collaborare nell’ambito di un progetto condiviso, denominato Multinazionali tedesche in Emilia. Il caso Lamborghini. (2016/2018).
A che punto siamo con la partecipazione dei lavoratori in Italia?
Lo studio approfondito e prolungato di un caso di partecipazione, piuttosto singolare e per certi versi esemplare quale quello di Automobili Lamborghini, non mi consente di fare un bilancio esaustivo sulla situazione italiana nel suo complesso. Com’è noto, il termine partecipazione, in Italia, ha innanzitutto una diversa cornice giuridica rispetto all’originaria co-determinazione tedesca, mentre le variegate esperienze in atto nel panorama industriale italiano sembrano, allo stato, dare a questo termine contenuti e declinazioni molto diversificate, che hanno differenti gradi di coerenza col modello originario, a sua volta non omogeneo. Tuttavia, vorrei innanzitutto precisare ai lettori il focus specifico del vertice visivo dell’antropologia sull’impresa e sul lavoro, forse meno noto rispetto a quello delle discipline economiche e organizzative. Dal punto di vista teorico, si tratta del livello dei processi culturali legati all’impresa, che vuole dire le conoscenze, i valori organizzativi e del lavoro, ma anche i comportamenti, le pratiche entro cui i principi e i valori sono quotidianamente incarnati e declinati, con attenzione specifica agli esiti sulle persone; al contempo, l’attenzione è rivolta anche a come i processi economici e culturali sincretici, realizzati nelle imprese alla scala locale, si innestano, con reciproche influenze, nei più ampi processi di scala globale. La metodologia cardine, che ci permette di esplorare ed analizzare tali livelli, è l’etnografia, una pratica minuta e reiterata di osservazione e partecipazione che si realizza sempre e solo percorrendo dall’interno le relazioni sociali e gli spaccati di vita delle realtà oggetto di ricerca. Vengo quindi, dopo questa breve digressione, al caso Lamborghini e alla locale declinazione del sistema partecipativo. Devo fare però ancora una premessa. Non è di semplice realizzazione, e meno che mai frequente, la condizione per cui un’azienda apra le sue porte ad un progetto di ricerca individuale, autofinanziato, quindi totalmente autonomo dagli obiettivi aziendali, consentendo ad una ricercatrice di condividere momenti della vita aziendale, di osservare momenti che a tutti gli effetti sono considerati interni e spesso riservati. Tengo dunque a dire che questa complessa modalità di ricerca è stata resa possibile da una circostanza ma soprattutto da uno stile di conduzione aziendale. La circostanza è sicuramente la lungimiranza e la reale apertura al dialogo del coordinatore sindacale delle RSU e del responsabile HR delle relazioni sindacali, che si sono autenticamente interessati al mio progetto e che lo hanno considerato di una qualche utilità per loro, nella misura in cui andava ad indagare proprio quei delicati equilibri di sintesi tra principi diversi, che rappresenta una dimensione centrale del loro lavoro quotidiano. Gli equilibri di cui parlo consistono nella traduzione e la messa in pratica dei principi e dei valori della mitbestimmung entro un contesto come quello italiano, molto lontano, dal punto di vista aziendale e sindacale, dalla cultura che ha generato tali principi. Quando parlo di stile aziendale, invece, intendo dire che la ricerca è stata possibile anche grazie ai principi di una partecipazione declinata “alla tedesca”, sostenuta da un modello forte quale quello della casa madre Volkswagen. Ne sono ulteriore prova l’ammissione, concessami prima da Audi e poi da Volkswagen, a partecipare come osservatrice, nel 2018, alla Commissione Audi di Inglostadt e al CAM di Wolfsburg, eventi che mi hanno consentito di osservare il funzionamento delle istituzioni centrali del loro modello di relazioni industriali. Era la prima volta che uno studioso indipendente veniva ammesso, ed è stata un’esperienza di grande interesse, che ha concorso a rafforzare la comprensione della distanza, storica e culturale, tra realtà organizzative e sistemi di relazioni industriali. Ciò non implica però che traduzioni e adattamenti siano irrealizzabili, come dimostra anche un rinnovato interesse, in questi anni, da parte della letteratura.
E’ possibile e auspicabile rafforzare la cultura della partecipazione in Italia?
Auspicabile sicuramente. Dopo il lungo soggiorno di ricerca in Automobili Lamborghini e avendo respirato, attraverso l’etnografia, il clima della quotidianità aziendale, è facile concludere che gli esiti di relazioni industriali partecipative producono nei lavoratori effetti positivi. A ben guardare alla storia recente delle relazioni industriali italiane, soprattutto nell’automotive, le tensioni e i conflitti frontali sono stati all’ordine del giorno, e spesso le soluzioni ai problemi sono state demandate al contenzioso giudiziario, più che ai tavoli di contrattazione. E’ soprattutto all’insegna di questo che ritengo i principi generali ispirati alla partecipazione dei lavoratori non solo auspicabili, ma forse ancora attesi e con un certo ritardo. Essi si presentano sempre più necessari se vogliamo costruire realtà lavorative non solo aperte e dialoganti, ma anche meglio disposte ad accogliere le sfide della globalizzazione con un’autentica – e non retorica – condivisione degli obiettivi aziendali e sindacali. Lo scopo congiunto può essere quanto meno quello di mitigare i rischi e gli effetti più perversi sulle condizioni della produzione e del lavoro, tipici della fase attuale della globalizzazione dell’economia. Circa la praticabilità dei principi partecipativi, credo che essi richiedano un complessivo mutamento culturale in Italia, tanto da parte datoriale quanto da parte sindacale, oltre a tenere conto delle cornici legislative che, qui da noi, non sono certo rafforzative di queste prospettive.
Quale ruolo devono svolgere le organizzazioni datoriali e sindacali?
Riagganciandomi a quanto appena detto, dobbiamo guardare soprattutto in questa direzione per individuare i protagonisti delle trasformazioni di vedute che diano spazio a principi e a pratiche di tipo partecipativo. Realisticamente, la nostra storia industriale, la nostra cultura manageriale, come pure la tradizione sindacale conflittuale non convergono verso esiti improntati alla partecipazione. E tuttavia, come il caso Lamborghini mi sembra dimostri, il sindacato FIOM più combattivo e all’avanguardia d’Italia (nettamente maggioritario in azienda), come testimoniato dalla sua vicenda storica e contrattuale, e al contempo una classe manageriale di più giovane generazione, fortemente formata alle cosiddette soft skills, stanno concretamente operando per superare relazioni industriali improntate a consolidate barriere, dando vita a quello che, dal punto di vista antropologico, è un interessantissimo sincretismo culturale. Certo, l’esperienza Lamborghini non è pensabile come replicabile di per sé, anche se le sue specificità sono spesso costruite in stereotipi fuorvianti, come quello che vuole questa felice realizzazione delle relazioni industriali unicamente imputabile agli alti profitti dell’azienda. In realtà le cose non stanno così, al contrario le poche ricerche sulle aziende del luxury dimostrano che in tale settore lo sfruttamento e le vessazioni dei lavoratori sono particolarmente accentuate. Dunque, pur non essendo possibile fare di Lamborghini un modello, credo però che molte parti di questa esperienza possano essere estrapolate e convertite quanto meno in principi di divulgazione e formazione, ed è quanto stiamo provando a fare, con seminari in alcune sedi universitarie (Bologna, Caserta, Cagliari) e ragionando assieme, con azienda e sindacato, circa la “restituzione” dei risultati di ricerca e la disseminazione, sul territorio e fuori, di alcuni passaggi significativi della complessa traduzione culturale operata entro l’azienda: i cui esiti ci consentono di ben sperare.
(cfr. D’Aloisio F., L’impresa della partecipazione. Una ricerca antropologica in Automobili Lamborghini, Franco Angeli, in corso di stampa).