Intervista a Filippo Belloc

Ci parli di lei…

Sono Professore Associato di Economia Pubblica presso l’Università di Chieti-Pescara. Sono stato Research Associate all’European University Institute e Visiting Scholar alla UCLA (USA), dove ho lavorato sul tema della relazione tra strutture di governo societario e performance innovativa delle imprese. Come Visiting Professor a Cambridge, nel 2015, e alla Leeds Business School, nel 2017, ho condotto alcuni studi sulla regolamentazione dei licenziamenti e della rappresentanza e su come diversi schemi regolatori possano influenzare l’incentivo delle imprese a fare investimenti innovativi. Sono stato inoltre consulente per la Corporate Affairs Division dell’OECD, per la quale ho redatto un rapporto su governo dell’impresa e crescita economica. Più di recente, mi sono occupato di cooperazione in Italia e sto lavorando a un progetto di ricerca sulla cooperazione nell’economia digitale e sulla capacità delle imprese cooperative di assorbire gli shock tecnologici.

A che punto siamo con la partecipazione dei lavoratori in Italia e in Europa ?

E’ opportuno fare una distinzione tra la partecipazione dei lavoratori alla proprietà delle imprese attraverso forme societarie tipiche (le cooperative) e la galassia di strumenti e meccanismi che concernono la partecipazione dei lavoratori nelle società di capitali. Mentre sul primo aspetto l’Italia ha storicamente mostrato una sua specificità e una certa capacità di leadership anche a livello europeo, sia per quanto riguarda le best practices sia per quanto riguarda la diffusione e il consolidamento del settore cooperativo, sul secondo aspetto la situazione è più confusa e certamente meno strutturata (sia nella legislazione che nella prassi).

A questo proposito sono molto utili i dati forniti dal Centre for Business Research di Cambridge, che consentono di avere un quadro sintetico dell’evoluzione della regolamentazione del lavoro e della rappresentanza dagli anni Settanta a oggi. Pur considerando diversi aspetti che in vario modo compongono il quadro della partecipazione dei lavoratori alle decisione aziendali (dal diritto sindacale alla estensione dei contratti collettivi, dalla partecipazione agli utili e agli organi di governo al diritto a essere informati e consultati sulle scelte strategiche dell’impresa), i dati suggeriscono una situazione piuttosto stagnante. Per esempio in Italia mancano dispositivi istituzionali vincolanti che garantiscano la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nei consigli di amministrazione.

Se questo, per ragioni storiche, ha sempre avuto un contrappeso nella presenza di sindacati relativamente forti, è anche vero che oggi, con la frammentazione e dematerializzazione di molti settori produttivi (e di molti segmenti della produzione in industrie più tipicamente tradizionali), il ruolo importante che una volta veniva giocato dal sindacato tende a sfumarsi e spesso a sparire, lasciando pericolosi vuoti nella difesa della “voice” del lavoratore nell’impresa.

Lo scenario europeo, d’altro canto, è composito e caratterizzato da una forte eterogeneità che è impossibile riassumere in poche righe. Vale la pena ricordare, tuttavia, che, mettendo ancora insieme le varie dimensioni che compongono i quadri legislativi sulla rappresentanza, i nostri vicini mostrano una situazione per molti versi più evoluta. E’ il caso, naturalmente, della Germania, nonostante alcune recenti riforme che hanno destabilizzato anche lì alcuni pilastri del diritto del lavoro, e della Francia, che nel 2013 (tutto sommato, in un momento storico in cui in Italia ci si affrettava a fare tutt’altro) ha esteso con la Legge 2013-504 a tutte le imprese con più di 5000 dipendenti l’obbligo di garantire una rappresentanza dei lavoratori non irrilevante nel principale organo di governo aziendale. Di partecipazione dei lavoratori negli organi di governo si è anche parlato in Inghilterra in modo abbastanza costruttivo lo scorso anno, sotto il governo May. Il tema, insomma, sembra essere preso più seriamente all’estero di quanto non si faccia in Italia.

E’ possibile rafforzare la cultura della partecipazione in Italia ?

Certamente sì, e sarebbe anche auspicabile. A questo proposito sembra emergere una forte contraddizione tra ciò che molti studi accademici oramai indicano come un aspetto importante, certo tra molti altri, della via per far ripartire la produttività del lavoro e l’immobilismo dei legislatori che sembrano guardare con sospetto a quello che può apparire un lusso in un’epoca di forte competizione globale e crescita debole.

Il malinteso di fondo è che la partecipazione dei lavoratori sia un modo per difendere i diritti economici dei lavoratori e per redistribuire in modo più equo i risultati economici positivi, qualora ce ne fossero, tra lavoro e capitale, al prezzo di limitare la flessibilità delle imprese e la loro capacità di competere sui mercati globali. Sfugge a molti che la partecipazione dei lavoratori è invece uno strumento importante per attivare diversi meccanismi virtuosi.

Dove il lavoratore è coinvolto, migliora l’allineamento tra il comportamento dei lavoratori e i tradizionali obiettivi aziendali. La partecipazione inoltre consente ai lavoratori di contribuire in modo positivo alla definizione delle strategie aziendali a diversi livelli, ad esempio avanzando suggerimenti tecnici, organizzativi o in materia di investimenti. Non bisogna dimenticare, d’altronde, che l’orizzonte temporale dei lavoratori presso la stessa impresa è spesso piuttosto lungo, e i lavoratori hanno dunque tutto l’interesse a difenderne la stabilità economica e le prospettive di crescita.

Smettere di pensare alla partecipazione come un lusso credo sia fondamentale per rilanciare la cultura della partecipazione in Italia.

Quale ruolo devono svolgere le organizzazioni sindacali e datoriali ?

Le organizzazioni sindacali si trovano di fronte a un momento difficile. Come dicevo, in Italia, hanno storicamente ricoperto una funzione importantissima, anche colmando con lo strumento della negoziazione vuoti legislativi che non poche volte si sono aperti su vari fronti della regolamentazione del lavoro. Non senza errori, però. E in certe occasioni accentrando le decisioni, anche nelle singole realtà aziendali, facendo venir meno lo spirito e anche le virtù di una vera partecipazione democratica dei lavoratori.

Oggi la dematerializzazione del luogo di lavoro, la frammentazione delle occasioni lavorative e la proliferazione di nuove figure professionali (e, di riflesso, nuove forme contrattuali spesso di difficile inquadramento) rendono la funzione di rappresentanza del sindacato ancora più necessaria che in passato. Deve però essere una rappresentanza allargata, fino a includere quei nuovi spazi del mondo della manifattura e dei servizi dove il tradizionale diritto del lavoro non arriva e che a macchia d’olio si estendono su luoghi, settori e competenze sempre più centrali.

Rilanciare la partecipazione non è possibile senza coinvolgere quella parte, in crescita esponenziale, del mondo del lavoro dove rapporti fintamente autonomi celano invece un vuoto di diritti. Purtroppo, l’introduzione di nuove tecnologie nella produzione di beni e servizi e nell’organizzazione del lavoro non ha sempre contribuito a migliorare le condizioni di lavoro né a sostenere la produttività. Il sindacato dovrà accettare la sfida della comprensione di questi fenomeni e reinterpretare i suoi meccanismi di funzionamento per poter recepire e fare proprie le istanze che provengono da un popolo di lavoratori ad oggi fuori da qualunque canale di rappresentanza e partecipazione.

Dall’altro lato, anche le organizzazioni datoriali devono accettare una nuova sfida, che è quella della via alta verso la competitività. Per anni, le organizzazioni datoriali si sono concentrate sull’aspetto salariale e sulle rivendicazioni fiscali. Non si può certo pensare che questo sia sufficiente per competere nei settori di frontiera e sui mercati internazionali. La partecipazione può rappresentare anche per le imprese un ingranaggio di nuovo modo di fare impresa, soprattutto nei settori ad alta intensità di conoscenza, dove il capitale umano gioca un ruolo fondamentale. In questo senso, le organizzazioni datoriali possono fare molto, promuovendo i modelli di successo e abbandonando un atteggiamento difensivo che ha contribuito a sclerotizzare il capitalismo italiano.

Quale potrebbe essere il prossimo passo in questa direzione ?

Non si può pensare di chiedere al legislatore di intervenire a gamba tesa su una questione estremamente complessa e multidimensionale come quella della partecipazione, senza che ci sia un consenso ampio su una road map chiara e strutturata. Un passo importante potrebbe dunque essere la promozione di un laboratorio, nella forma ad esempio di un tavolo permanente, che faccia da cabina di regia per una opportuna evoluzione dei quadri legislativi, dove il mondo del lavoro e il mondo delle imprese possano confrontarsi e aiutarsi a vicenda nella comprensione di un fenomeno complesso, come quello della partecipazione, e nella identificazione delle best practices. C’è da dire che, in questo senso, un input importante può essere dato anche dall’accademia. La ricerca scientifica internazionale, sul tema della partecipazione, ha fornito moltissimi contributi, soprattutto empirici, con risultati in larga parte condivisi su quali meccanismi si sono dimostrati di maggiore successo, quali più insoddisfacenti, su come coniugare specificità settoriali e specificità organizzative, e tanto altro ancora. E’ per certi versi stupefacente che questa ricca fonte di informazioni sia generalmente ignorata dagli addetti ai lavori.

 

 

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