Il percorso di Vittorio Foa, teorie ed esperienze di democrazia industriale.

Tra gli ostacoli che sbarrano la strada a una comprensione del nostro presente vi è quella visione semplificata, quando non caricaturale, del Novecento, che vediamo condivisa da retoriche diverse – anche schierate su fronti politici opposti: una visione che, in estrema sintesi, lo definisce come il secolo della grande fabbrica, della quale la società, la politica, il sindacato avrebbero riprodotto, specie nel trentennio del compromesso “keynesiano” (“età dell’oro” nello schema del Secolo breve di Hobsbawm), sia la capacità di generare prosperità che la fondamentale rigidità delle strutture.

A tale presunta rigidità ci siamo abituati a sentir contrapporre – e abbiamo imparato a diffidarne – l’apparato retorico della flessibilità: del resto, osservava Vittorio Foa più di trent’anni fa, a diventare più flessibili, ideologicamente e politicamente, sono state in primo luogo le classi dominanti, e «proprio perché il nemico storico è diventato così flessibile, dobbiamo riconoscere nella sua flessibilità una serie di finalità di cui non abbiamo nemmeno l’idea.»[1]

Per tagliare questa nebbia di luoghi comuni, quale migliore chiave d’accesso che una figura come quella di Foa? Figura complessa, vasta, che si è contraddetta e ha riflettuto con lucidità su queste contraddizioni – in quello sforzo incessante di trasparenza che costituisce la caratteristica ispirazione dei suoi libri di memorie, ma anche dei suoi testi di storia – capace di contenere moltitudini («uomo plurale» s’intitolava il libro dedicatogli nel 2011 da Luigi Falossi e Paolo Giovannini) o almeno a lungo tesa a dar voce alla «classe operaia», di cui in quegli anni il sindacato e i partiti della sinistra andavano costruendo il linguaggio comune su scala nazionale, la forma organizzata di presa di parola (nei suoi testi ricorrono brani, anche lunghi, tratti dagli interventi di operai e delegati, citati accanto a Marx come vere e proprie autorità sulla vita in fabbrica).

Foa non tralasciò mai di prestare attenzione ai fenomeni di stratificazione e segmentazione interni alla classe operaia: ma dagli anni 1980 in poi la sua riflessione fu segnata dalla critica (e in parte autocritica) allo schema di una classe operaia compatta e omogenea; al contempo riprendeva vigore quella al partito monolite, che fu sempre il filo del suo rapporto di confronto con il Partito Comunista.

La dialettica tra distribuzione e concentrazione del potere fu sempre una delle tensioni dominanti nel pensiero di Foa: da una parte, cioè, il potere distribuito nelle autonomie, nei consigli, nei movimenti di massa, e dall’altra il potere concentrato nell’autorità capitalistica e nello Stato – ma anche in quelle forme di organizzazione del movimento operaio che riproducevano nel sindacato, nel partito o nello Stato rivoluzionario la disciplina centralizzata dello Stato nazionale. Questa dialettica verrà tematizzata nella fase autocritica degli anni 1980, quando passò dal descriverla nei termini della metafora alto / basso a quelli di una geometria del conflitto verticale / orizzontale. Si trattava di una cultura politica, insomma, tesa ad individuare i poli del conflitto e ad articolarne gli assi verticali e orizzontali: e potrebbe perciò essere riscoperta come bussola realista per le recenti tendenze alla democrazia diretta come risposta alla sospensione della politica sotto la cappa dell’austerità – tendenze spesso troppo astratte, e nelle quali si è fatta strada una critica alla rappresentanza di segno diverso da quella di Foa.

Qui non si ambisce certo a tracciare un profilo esauriente: Vittorio Foa del resto aspetta ancora una vera biografia, che richiederebbe di andare oltre le sue molte memorie e innumerevoli interviste (si può rimandare all’articolata schedascritta da Andrea Graziosi per il Dizionario Biografico degli Italiani, e all’introduzione di Andrea Ginzburg alla raccolta dei Discorsi parlamentari di Foa). Qui si può solo cercare di tratteggiare un ritratto di Foa attorno ad un tema portante del suo percorso culturale e della sua vita politica: la democrazia in fabbrica, l’autogoverno dei produttori. Così individuava nel potere sull’organizzazione del lavoro, sulla gestione del cambiamento tecnico il fuoco dei rapporti tra le classi sociali – e quindi la trama della storia delle loro lotte e, infine, il terreno di studio e di azione dell’attività sindacale, che non doveva perciò fermarsi all’orizzonte delle rivendicazioni salariali. Più avanti alla riflessione sul «governo operaio del tempo di lavoro» si affiancò quella sui «nuovi rapporti tra tempi di lavoro e tempi di vita».[2] Una prospettiva, ideale sì ma anche pratica, nel suo rapporto complesso con le organizzazioni storiche del movimento operaio, alla quale sta ben stretto il ruolo di «voce inquieta della sinistra» che a Foa è stato assegnato nella patristica repubblicana.

Seguendo il filo dell’autogestione e dell’autogoverno, Foa si può collocare tra quei protagonisti del movimento operaio italiano refrattari alle classificazioni nette ma non, tantomeno!, riducibili alla macchietta dell’ “eretico”. Mutatis mutandis, lo stesso si potrebbe dire di Lelio Basso o di Raniero Panzieri, o di molti altri.

Come Basso e Panzieri, Foa fu tra coloro che nel pieno del decollo economico rifiutavano con nettezza la «nuova ondata “conciliatrice” tra capitale e lavoro» contrabbandata sotto l’etichetta del neocapitalismo. In un energico intervento del 1957 cui Panzieri su Mondo Operaio dava il titolo Il neocapitalismo è una realtà, Foa sottolineava anche che sotto questo nome si cercava di descrivere cambiamenti profondi, oggettivi, nella struttura del capitalismo, cambiamenti che mettevano in crisi le tradizioni di lotta e di teoria delle sinistre. Per scoprire la crisi, in sostanza, il marxismo e il movimento operaio non possono aspettare l’ora del tracollo; al contrario, devono essere in grado d’individuarne i contorni già nei tempi di vacche grasse: «Chi oggi cercasse ancora la crisi nel ristagno e nell’immobilità, e non invece, com’è giusto, nei modi e nelle forme, nuovi e diversi gli uni dalle altre, delle forze produttive messe in moto dalla tecnica e dalla scienza, finirebbe con l’essere travolto da queste stesse forze produttive e lasciare campo libero al potere del nuovo nemico.»

Rispetto a Basso e Panzieri, invece, la differenza essenziale è che per Foa il socialismo non era tanto un obiettivo, un sistema da porsi come fine politico e ideale, quanto una prassi politica, una forma dinamica di organizzazione, la rivendicazione del controllo sulla produzione e sull’economia da parte dei lavoratori – una prospettiva che, insieme alla crescente disillusione verso il socialismo in Europa orientale, lo avrebbe portato a dichiarare nel 1985: «In questo momento io sono un laborista, che vuol dire che la lotta di classe continuerà, in forme diverse ma continuerà, ma io non credo più alla possibilità di definire un fine sistematico. A questo sono arrivato lentamente, secondo un lungo corso della mia vita: era un elemento sempre presente, l’affermazione del movimentismo rispetto al finalismo. Ora questo mi sembra un punto fermo.»[3]

Un punto fermo, forse, ma che sarebbe dovuto servire ad affrontare due tentazioni sempre presenti nell’attività sindacale, opposte e complementari: da un lato, il rischio che la centralizzazione delle decisioni prepari una delega e una collaborazione più stretta con lo Stato, che Foa arrivava a definire di tipo neocorporativo; dall’altro, il rischio di fare da zavorra allo slancio politico. Egli stesso osservava a proposito del movimento operaio inglese, ad esempio, che l’azione sindacale «è tanto più efficace quanto è più capace di realizzarsi sul terreno delle condizioni materiali, di entrare nelle minuzie della vita di lavoro e della condizione operaia, col rischio di sacrificare la visuale generale di un processo di liberazione, di non leggere il progetto di liberazione dentro quelle condizioni materiali, dentro quelle minuzie».[4]

A chi legge gli scritti di Foa è infatti evidente la simbiosi tra il percorso della sua analisi, e costante autoanalisi («Forse la storiografia non è altro che autobiografia, proiettata lontano da sé»),[5] e la militanza nelle organizzazioni della sinistra e del movimento operaio: prima, tramite Leone Ginzburg, in Giustizia e Libertà e poi, con in mezzo otto anni di carcere per cospirazione, nel Partito d’Azione. Con questo prese parte alla Resistenza e alla Costituente e dall’azionismo, o meglio dalla sua vena consiliarista (a sua volta ispirata anche dalla memoria torinese dei consigli di fabbrica), ereditò l’attenzione per la democrazia diretta: non nel senso di un ricorso compulsivo al voto, ma in quello di una partecipazione costante ai processi decisionali, in primo luogo, come si è detto, nella sfera economica e produttiva. Attorno alla parola d’ordine giellista dell’«autonomia» ruotavano i tre fuochi essenziali dell’interesse di Foa, i consigli appunto, i movimenti di massa e il partito, e la volontà di tenerli insieme. Si trattava di una fase caratterizzata dalla speranza di trasformare i comitati di liberazione e gli organi resistenziali nati nei luoghi della produzione in istituzioni di autogoverno, e poi dalla delusione per una ricostruzione economica che era andata di pari passo con la restaurazione degli antichi poteri padronali. Il diritto dei lavoratori alla partecipazione alla gestione delle imprese, «ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione», entrò nella Costituzione (art. 46) ma rimase inattuato: su di esso, sulle sue prospettive e ambiguità è stato del resto già dedicato un articolo su questa rubrica.

Foa si iscrisse poi, nel 1947, al Partito Socialista, dal quale nel 1964 promosse la scissione in polemica con il centrosinistra. Partecipò quindi alla fondazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, di cui nel 1972 traghettò un’ala nel Partito di Unità Proletaria e poi, nel 1974, nel Partito di Unità Proletaria per il Comunismo.

E lungo tutto questo periodo, dal 1948 fino al 1970, fu nel sindacato: nella Cgil e nella Fiom (di cui fu segretario nazionale nel 1955-57), nel gruppo dirigente formatosi attorno a Di Vittorio e che ne raccolse l’eredità, in particolare il ritorno alla fabbrica e alla contrattazione aziendale dopo il 1955. Grazie alle sue competenze in materia di economia e di politica economica (il suo primo intervento in Costituente riguarda la ratifica del Trattato di Bretton Woods, poi si occupò anche di questioni energetiche) dal 1949 fu a capo dell’Ufficio Studi della Cgil, al quale chiamò a collaborare Bruno Trentin, e si occupò del Piano del Lavoro (già agli sgoccioli del Pd’A aveva promosso un piano organico di lavori pubblici per risollevare le sorti delle masse popolari).

L’attività di funzionario e dirigente, negli anni più duri del sindacato, è quella che Foa ha più volte sottolineato essere per lui la più importante: ma ad essa pose termine nel pieno di una delle fasi più difficili per la Cgil, quella dello sforzo di aggiornare la sua base di massa e la sua strategia di fronte a mutamenti, percepiti in ritardo ed esplosi nel 1969, nella composizione sociale della classe operaia di fabbrica, sempre più formata da meridionali e contadini appena inurbati. Al congresso che elesse segretario Lama, nel 1970, si ritirò dal sindacato per dedicarsi agli studi storici e all’insegnamento (a Modena, Torino, Camerino).

Se negli articoli del periodo resistenziale Foa aveva insistito che l’autogoverno delle masse non poteva essere incentrato sul proletariato ma doveva includere i ceti medi, i contadini, gli impiegati e i produttori indipendenti, la militanza sindacale ruotava attorno alle specificità della condizione di fabbrica, alle questioni e ai conflitti sull’organizzazione del lavoro, insomma a quella visione del rapporto tra sfera della produzione e sfera della politica che allora andava sotto il nome di «centralità operaia» – ma anche, un passo oltre, di «autonomia operaia», di cui è esemplare il saggio Lotte operaie nello sviluppo capitalistico che Panzieri gli fece pubblicare sul primo numero dei Quaderni rossi nel 1961.

Significava contestare non solo le gerarchie del potere in fabbrica, ma anche il sistema di bisogni che si sviluppava con il miracolo economico: «Solo un’affermazione autonoma del movimento operaio sui suoi bisogni crescenti, – ebbe a dire nel 1960 al congresso milanese della Cgil (in La cultura della Cgil, pag. 68) – solo un suo giudizio sulla gerarchia di valore dei consumi può impedire una pericolosissima subordinazione del movimento operaio alla struttura monopolistica della società». Non si trattava solo di un’affermazione di grandi principî, ma si riferiva anche alla necessità di coniugare difesa del posto di lavoro e riorganizzazione del lavoro stesso.

Da teorico dell’autonomia operaia fu, tra i dirigenti storici della sinistra, il più interessato ed interessante per la «nuova sinistra» e i movimenti studenteschi – ma sempre schierandosi con la Cgil: lo dimostrò nel 1962 litigando con Panzieri sui moti di Piazza Statuto, nel 1969 imponendo la normalizzazione del Psiup torinese. A questa visione, e al ruolo del movimento operaio nella storia del paese, diede un’articolazione storiografica con il saggio Cento anni di sindacato in Italia, scritto originariamente per la Storia d’Italia, V: I documenti, Einaudi 1973, con il titolo Sindacati e lotte sociali.

La centralità operaia, che aveva continuato a funzionare per Foa da chiave di lettura delle lotte (si entusiasmò per i consigli di fabbrica, in cui vedeva conati di autentica democrazia industriale), finì da un lato contestata dal femminismo e dall’altro esasperata dall’operaismo del 1977: una doppia erosione che costrinse Foa a un lungo periodo di ripensamento e ricerca, decidendo nel 1979 – dopo essere stato, nel 1976, eletto deputato per Democrazia Proletaria ed essersi subito dimesso – di astenersi per qualche anno da ogni manifestazione politica.

Al periodo del ritiro appartiene La Gerusalemme rimandata(1985), il libro in cui, sulla scorta degli storici Edward P. Thompson e David Montgomery, rivolgeva Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento – così il sottotitolo – cioè di una fase d’iniziativa da parte delle destre economiche e politiche, di arretramento del movimento operaio e di «caduta (o [di] logoramento) di certezze che avevano sorretto il mio impegno sindacale e politico, certezze che erano in larga misura costitutive della cultura tradeunionistica come di quella marxista». In questo studio, nella ristrutturazione del lavoro in Inghilterra negli anni 1910 Foa vedeva conflitti per il controllo sui tempi e modi del lavoro. Vedeva cioè il momento in cui si era tracciato il campo del conflitto che avrebbe caratterizzato la lotta sindacale per i decenni a venire: all’interno del tempo e del luogo del lavoro, piuttosto che nel rapporto tra lavoro, tempo libero, ambiente sociale. Si annodavano e misuravano la gestione “dall’alto” del cambiamento e le «scelte operaie di politica economica» (pag. 35), in un confronto che sarebbe sfociato nel vero e proprio industrial unrest. «Come disse un industriale, la posta in gioco è simply mastery, è il potere nella produzione.»[6]

Nell’industrial unrest britannico fino alla sconfitta del 1920 Foa voleva rintracciare un momento genetico della lotta di classe novecentesca, con tutte le sue «polivalenze» e apparenti paradossi, che ruotavano attorno alla traduzione del movimento in politica (in quel caso ai rapporti tra movimento, sindacato e Labour Party) – ovvero nella dimensione “verticale”, nei termini di Foa. In essa rimaneva la tensione tra le istanze dell’autogestione, dell’autogoverno e quelle dell’organizzazione. «L’idea dell’autogoverno nella produzione e nella società non è riuscita a diventare un nuovo assetto sociale e politico, ma continua a vivere come elemento di contestazione, di sollecitazione e anche di integrazione della democrazia elettiva e delegata»: senza di essa non si sarebbero avuti le nazionalizzazioni e il Welfare State del dopoguerra.[7] Sembrava che, alla fine dei conti, toccasse all’eterogenesi dei fini saldare la faglia tra «governo della gente» e «promozione della gente all’autogoverno».[8]

Nella crisi di fine anni 1970 e delle sconfitte sindacali dei primi anni 1980 Foa s’impegnò nel riconoscere le nuove forme che andava prendendo la tendenza antica alla gestione dall’alto del cambiamento, anche tecnologico, con il grande balzo in avanti dell’elettronica. Si trattava anche di tentare un’elaborazione non solo difensiva ma positiva di questa crisi, davanti alla quale, per Foa, si dimostravano inadeguate le forme e formule “classiche” e ormai “rigide” del movimento operaio. La Gerusalemme rimandata fu la tappa cruciale del suo ragionamento sulla storia del movimento operaio e del suo darsi organizzazioni, sul rapporto tra sindacato e politica, tra negoziazione e conflitto, tra mezzi e fini, tra quotidiano e utopia. Sotto l’egida dell’autonomia – caduta la qualifica di operaia – alla riflessione di Foa sul controllo dei tempi del lavoro si andava sempre più integrando quella sui tempi della vita; lo schema del conflitto alto-basso si andava intersecando quello verticale-orizzontale, che rispondeva anche alla sua presa di distanza dalle organizzazioni centralizzate.

Al finire del decennio Foa si avvicinò al Pci, venendo eletto senatore per la Sinistra Indipendente nel 1987, ma ne appoggiò la trasformazione in Partito Democratico della Sinistra, che seguì nelle successive, sino alla morte, a Formia, il 20 ottobre 2008. Non seppe vedere che tra quelle nuove forme della tendenza antica vi era proprio il centrosinistra. La speranza di liberare la sinistra politica e sindacale da schemi non più adeguati a comprendere i processi in corso, speranza che motivò la sua adesione al Pds, finì assorbita nella rapida evaporazione del riferimento sociale e culturale ai lavoratori e al lavoro; l’accantonamento del fine ultimo del socialismo andò di pari passo con la perdita (l’espulsione) della capacità di progettazione del futuro e della memoria storica delle classi lavoratrici, che erano state al centro del pensiero di Foa in tutti i suoi campi di attività. Così la critica al partito monolite lasciò spazio, sulle macerie di questo, a un verticismo senza popolo (mentre alla diffidenza verso il mito dell’Unione Sovietica non corrispose una censura verso l’aggressività militare degli Stati Uniti, nei confronti del cui interventismo Foa stesso espresse più volte fiducia). Aveva visto nella venerazione per il progresso tecnico una tara del movimento operaio novecentesco (e della sua stessa attività sindacale specie negli anni 1950); si trovò in una sinistra con una nuova venerazione per il mercato. Foa stesso ammise invece (per esempio in un dialogo con Claudio Pavone)[9] che aveva coltivato la speranza di incanalare in senso democratico e progressivo l’insofferenza popolare verso le rigidità dello stato sociale, ma che il suo antistatalismo di sinistra era stato travolto dall’antistatalismo dei neoliberali, dei nemici dello Stato sociale.

Ciò nonostante, il suo metodo critico di analisi dei rapporti sociali c’insegna a comprendere la dinamica di quella svolta storica. In un’analisi della svolta neoliberale degli anni 1980, a partire dalla quale – nell’introduzione a La cultura della Cgil– Foa si voltava indietro a riflettere su vent’anni di attività sindacale, Foa descriveva la natura di un progetto politico destinato ad andare molto oltre i confini delle destre storiche e della «nuova destra». Nel contesto dell’«accelerazione dei tempi dell’innovazione», scriveva Foa, in Italia si stava affacciando un modello già operativo in altri paesi (in tutta evidenza gli Stati Uniti di Reagan e il Regno Unito di Thatcher), ovvero un’aggressiva «nuova destra»:

Dietro il suo linguaggio simbolico, neoliberista e antistatalista, è possibile leggere due precisi obiettivi di politica statale. Il primo è quello di rieducare le imprese a più aperti scontri sociali senza tante mediazioni governative, di creare le condizioni per un intervento specifico e individualizzato, di promuovere nuove gerarchie produttive. Il secondo è di intensa pedagogia popolare per liquidare la rigidità delle attese e delle aspettative create dallo Stato sociale. Brecht aveva detto che se il popolo non va d’accordo col governo e non si vuole o non si può cambiare il governo, bisogna cambiare il popolo. Questa è la linea della nuova destra: cambiare il popolo. L’ideologia liberista serve a rendere fluida una situazione irrigidita dalla lunga pratica keynesiana e socialdemocratica.[10]

Questo movimento su due livelli – pedagogia del conflitto per le classi dominanti, interiorizzazione dei loro schemi da parte delle classi popolari per renderle pronte ad abbandonare le conquiste storiche del movimento operaio – si andava configurando come una «lotta di classe dall’alto». Verticale contro orizzontale, dunque, ancora una volta e più che mai: l’idea di politica di Foa era opposta. Scriveva nell’ottobre 1984, in conclusione alla prefazione alla Gerusalemme rimandata:

Io mi sono sempre occupato di politica. Quegli inglesi mi hanno aiutato a capire meglio quella che nel corso di una lunga vita mi è parsa una distinzione importante: che politica non è solo comando, è anche resistenza al comando, che politica non è, come in genere si pensa, solo governo della gente, ma anche aiutare la gente a governarsi da sé.

(B. Settis, www.sinistrainrete.info, 27.10.2016)

Note
[1] Dal dialogo del 1984-85 con Carlo Ginzburg in Scelte di vita, a cura di Andrea Ricciardi, Einaudi, Torino 2010, pag. 40.
[2] In Pietro Marcenaro, Vittorio Foa, Riprendere tempo. Un dialogo con postilla, Einaudi 1982, pag. 108.
[3] Dialogo con Carlo Ginzburg e Vittorio Rieser in Scelte di vita, pag. 89.
[4] La Gerusalemme rimandata. Domande di oggi agli inglesi del primo Novecento,Einaudi, Torino 2009 (1a ed. Rosenberg & Sellier, Torino 1985), pag. 128.
[5] La Gerusalemme rimandata, pag. 128.
[6] La Gerusalemme rimandata, pag. 106.
[7] La Gerusalemme rimandata, pag. 302. Dirà anche, in Scelte di vita, pag. 101, che «il controllo dal basso, dopo i momenti di esaltazione, non riesce a diventare sistema continuativo», ma può conservare la funzione di «controllo morale e politico contro l’autoritarismo e contro l’arbitrio.»
[8] La Gerusalemme rimandata, pag. 312.
[9] In Novecento. I tempi della storia, a cura di Claudio Pavone, Donzelli, Roma 2008 (1a ed. 1997).
[10] Introduzione a La cultura della Cgil. Scritti e interventi 1950-1970, Einaudi, Torino 1984, p. xxx.

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