L’idea della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese non è mai scomparsa dall’orizzonte del sindacalismo. È altrettanto vero che negli ultimi 40 anni, in nessun Paese al mondo, si sono fatti passi in avanti in termini di legislazione di sostegno alla partecipazione dei lavoratori.
In Italia la Cisl ha sempre guardato con simpatia al sistema duale tedesco, che prevede sia la presenza dei rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di Sorveglianza, sia un sistema di co-decisione tra il consiglio di rappresentanza dei lavoratori e il management sulle scelte di investimento, innovazione (tecnologica e organizzativa), organizzazione del lavoro, occupazione, ecc.
Ma i diversi tentativi di introdurre in Italia forme di “democrazia economica” hanno finora incontrato l’ostracismo della Confindustria. E anche in Germania ci sono stati tentativi di metterne in discussione l’esistenza.
Negli anni ’80 c’è stato un cambio di fase con l’affermarsi dell’egemonia neo-liberista. In quegli anni ero sindacalista a Genova e coordinavo il settore dell’elettronica e dell’automazione industriale. Nel 1984 la Cisl fece un bellissimo convegno dal titolo “Dalla tradizione operaia alla fabbrica automatica”. Nella mia relazione usai una frase ironica ad effetto, che ben rappresentava quel cambio di fase. Dissi che «erano sempre di meno gli operai che sognavano una fabbrica senza padroni e sempre di più i padroni che sognavano una fabbrica senza operai». L’utopia si era rovesciata.
A distanza di tanti anni dobbiamo, da un lato, recuperare il “sogno” autogestionario e la spinta alla partecipazione, dall’altro prendere atto che, continuando ad esistere sia i padroni, sia gli operai, è preferibile ricercare le diverse e migliori forme con cui convivere.
Il destino ha voluto che l’idea di autogestione, mentre sembrava ormai accantonata in Europa, ritrovava nuova vita all’inizio di questo secolo in America Latina, con la diffusione dell’Economia solidale e, soprattutto, con la diffusione dell’esperienza delle “fabbriche recuperate”. Come risposta alla chiusura e abbandono delle fabbriche da parte dei loro “padroni”, durante la devastante crisi economica e finanziaria che investi nel 2000-2001 l’Argentina, questa esperienza si è prima propagata nel resto del continente latino-americano, per poi sbarcare nuovamente in Europa.
Si calcolano più di 150 imprese in Europa che fanno dell’autogestione il loro punto di forza. In Argentina sono oltre 350 imprese (poco meno di 20mila lavoratori). Anche l’Iscos (Istituto sindacale per la cooperazione allo sviluppo), ong della Cisl, ha contribuito a realizzare dal 2007 al 2010 progetti di cooperazione a supporto delle esperienze delle “fabbriche recuperate” in Argentina e Uruguay.
Rispetto alle altre molteplici forme di partecipazione dei lavoratori, andando oltre la ripartizione degli utili e dei risultati aziendali definiti attraverso la contrattazione collettiva dei salari, esistono tre ambiti specifici sui quali fare passi in avanti. Ci aiutano a capire quali sono alcuni casi aziendali concreti.
Prima di tutto esiste un terreno che va coltivato con cura. È quello della “partecipazione dal basso” dei lavoratori nella gestione dell’organizzazione del lavoro, dell’innovazione tecnologica e del miglioramento continuo, nell’ambito dei nuovi sistemi di produzione derivanti dal toyotismo, come il WCM. Un’effettiva partecipazione dei lavoratori presuppone la condivisione delle scelte, il rispetto reciproco, il superamento di una logica gerarchico-autoritaria che invece, in molte aziende, condiziona ancora la gestione della produzione e non solo. Un caso positivo di partecipazione dei lavoratori dal basso è individuabile nell’esperienza sul campo del Gruppo Luxottica.
Esiste, inoltre, un terreno ancora da coltivare rappresentato da una partecipazione/condivisione da parte dei lavoratori alle scelte d’investimento e occupazione (cosa e per chi produrre), ma anche alla ridistribuzione della ricchezza prodotta. Non solo tra azionisti, manager e lavoratori, ma includendo anche la comunità locale tra i destinatari dell’intervento. È il caso virtuoso di una multinazionale tascabile come la FAAC di Bologna, di proprietà della diocesi.
Esiste, infine, quello che in gergo si chiama “partecipazione alta”, cioè la partecipazione di rappresentanti dei lavoratori nel board delle aziende. Nei Consigli di Amministrazione, nel modello monistico, o nei Consigli di Sorveglianza (organo di controllo e indirizzo della società, ndr) nel modello dualistico.
Tra il 2020-21 la creazione di Stellantis, il principale gruppo manifatturiero in Italia con 86mila dipendenti, aveva aperto la porta alla partecipazione dei lavoratori nel CdA del Gruppo. In modo inaspettato Carlos Tavares, aveva annunciato di voler inserire due rappresentanti su undici. Uno di nomina PSA, in continuità con la tradizione aziendale e la legislazione francese; uno di nomina FCA. Era questo il vero elemento di novità e discontinuità con le relazioni industriali esistenti storicamente nel mondo FIAT.
Ma come si sa “il diavolo fa le pentole e non i coperchi”! E se Parigi ha nominato rappresentante dei lavoratori nel CdA di Stellantis, il francese Jacques de Saint-Exupéry, dipendente di PSA dal 1984 e dal 2008 segretario del comitato sindacale aziendale; Torino, ha invece designato l’inglese Fiona Clare Cicconi, senza preoccuparsi di consultare nessuno, tantomeno i dipendenti e i sindacati.
La signora Cicconi, oltre a non aver mai lavorato in aziende del gruppo FCA, dal gennaio 2021 è responsabile del personale di Google. In precedenza ha sempre ricoperto ruoli di direzione del personale in altri gruppi, da General Electric ad AstraZeneca. In pratica, non è mai stata dalla parte dei lavoratori. E non mi risulta che nominata, dal gennaio 2021, nel CdA di Stellantis in rappresentanza dei dipendenti, abbia mai cercato un rapporto con loro e/o con le rappresentanze sindacali.
In effetti nella scelta paradigmatica di John Elkann, più che un’idea di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, sembra forse esserci il sogno inconscio di molti industriali italiani d’importare il “modello cinese” di relazioni industriali. Nel Paese del dragone, in realtà, i responsabili del personale sono di fatto anche i “capi” del sindacato in azienda.