Il Consiglio dei Ministri ha licenziato qualche giorno fa le “linee guida” per la manovra di bilancio. È prematuro dare un giudizio definitivo su quanto annunciato dal governo, sarà necessario studiare nel dettaglio ogni provvedimento, ma un’idea su quella che sarà la prossima legge di bilancio la posso già esprimere: una manovra senz’anima e senza strategia, un compitino raffazzonato alla bell’e meglio, con un colpo al cerchio ed una alla botte, una manovra – oltre al resto pericolosamente finanziata per due terzi in deficit – che per riassumere posso definire illusoria e velleitaria.
Come sono lontani i tempi quando al termine del primo Consiglio dei Ministri del suo nuovo Governo, la Premier Giorgia Meloni annunciava orgogliosamente: “Ora tocca a noi, siamo pronti”. Quanto si sono dimostrate irreali ed ingannevoli le dichiarazioni roboanti di qualche esponente del Governo, che garantiva una rapida diminuzione delle accise sulla benzina, l’estensione urbi et orbi della flat tax, il rilancio della scuola, dell’università e della ricerca e la realizzazione di un sistema sanitario che non si dimenticasse di nessuno.
I tempi sono difficili, lo so perfettamente, le risorse sono scarse e le dinamiche internazionali sicuramente non ci aiutano. Dopo un buon inizio d’anno, l’economia italiana registra una forte flessione; la crescita del Pil nazionale nel secondo trimestre 2023 ha subito un forte rallentamento e le prospettive per il terzo trimestre non sono certamente esaltanti. Il credito è troppo caro e gli investimenti sono frenati, l’inflazione, per quanto in fase di rientro, limita i consumi, la produzione industriale rallenta cosi come il traino dell’export. Ed il debito pubblico ad agosto ha raggiunto i 2.758 miliardi, un fardello di quasi 50.000 euro sulle spalle di ogni italiano, neonati compresi. Il risultato è che a settembre 2023 il clima di fiducia sia dei consumatori che delle imprese diminuisce: da 106,5 a 105,4 per i primi, da 106,7 a 104,9 per le seconde.
In una simile situazione la manovra economica dovrebbe prevedere una serie di misure chiave destinate a dare una spinta, uno stimolo forte all’economia, per rassicurare i cittadini e dare loro una solida e duratura speranza per il futuro, ma questo spirito nella legge di bilancio proprio non lo trovo. Una delle tante sfide da affrontare parte dal presupposto che i salari italiani sono fra i più bassi d’Europa ed il loro valore reale non solo non è cresciuto negli ultimi anni ma è addirittura diminuito. Una sfida drammatica, che coinvolge milioni di lavoratori, ma che certamente non può essere fronteggiata con una inutilmente osannata “simil riforma fiscale a scadenza”, i cui effetti termineranno al 31.12.2024.
Il tema dell’introduzione del salario minimo, oggi al centro del dibattito politico, non mi appassiona; sono molto scettico sul fatto che questo strumento possa essere, come molti sostengono, la panacea per tutti i mali. La grandissima diffusione nel nostro Paese della contrattazione collettiva, che copre la stragrande maggioranza dei lavoratori, mi fa ritenere che sia questa la sede ottimale dove operare, considerato anche che ritengo ci sia spazio nei profitti aziendali per assorbire un aumento dei salari, almeno per quanto riguarda le retribuzioni più modeste.
L’Osservatorio dei bilanci 2020-21-22 della Fondazione Nazionale dei Commercialisti, infatti, stima che i ricavi delle società di capitale nel 2022 siano aumentati del 31,5%, dato che depurato dall’inflazione si attesterebbe 20,9%, mentre sarebbero oltre il 74% le aziende che hanno chiuso il bilancio in utile. Allora avanti con la contrattazione collettiva, e meglio ancora se riusciremo a renderla “più territoriale”, avanti con la riduzione del cuneo fiscale, che dovrà diventare strutturale e non essere ogni anno aleatoriamente “appesa” alla diponibilità di risorse, avanti con la detassazione di straordinari e mensilità aggiuntive, ma ritengo che sia arrivato il momento di introdurre nella gestione delle imprese strumenti innovativi che possano da una parte migliorare il livello retributivo dei dipendenti e dall’altra favorire la crescita della produttività delle aziende.
Un mezzo che potrebbe essere adottato per raggiungere questi obiettivi è sicuramente quello legato alla partecipazione diretta dei lavoratori alla gestione ed alla distribuzione degli utili di impresa, tema su cui nel corso della XVIII legislatura ho presentato un progetto di legge.
Uno strumento che non è certamente nuovo, visto che già la nostra Costituzione all’art. 46 prevede che “…la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”, ma che ritengo sia stato fino ad oggi fortemente sottovalutato, per non dire ignorato.
Coinvolgere i lavoratori nella gestione dell’impresa e nella condivisione degli utili significa creare un fruttuoso patto fra il capitale ed il lavoro, superando i conflitti fra i lavoratori e le imprese, che spesso si sentono su fronti diversi, in nome di un comune e condiviso interesse alla crescita dell’azienda e del benessere dei dipendenti.
Si verrebbe in questo modo a creare un clima di forte appartenenza, un lavoro di squadra dove ogni lavoratore si sentirebbe imprenditore, impegnato “a far andar bene la fabbrica”, il cui successo sarebbe un successo di tutti, perché l’interesse del dipendente verrebbe totalmente a coincidere con l’interesse dell’azienda.
E la condivisione di una quota degli utili aziendali a fine esercizio sarebbe vista non come un ordinario ed anonimo “premio” ma come un riconoscimento economico conquistato grazie ai buoni risultati dell’azienda a cui il lavoratore ha personalmente contribuito. E di questi tempi, non è cosa di poco conto.