Il presente articolo è rivolto, attraverso un approccio etnografico, alle caratteristiche del sistema di relazioni industriali, ai principi e alle pratiche sindacali in atto all’interno di Automobili Lamborghini, nota azienda emiliana di super-sportcar, fondata da Ferruccio Lamborghini a Sant’Agata Bolognese nel 1963, di proprietà del Gruppo Volkswagen (VW) dal 1998 (nella holding Audi).[1] L’ipotesi qui perseguita riguarda innanzitutto il carattere di forte originalità di tale sistema di relazioni industriali, che si fonda su un particolare processo sincretico che tiene insieme la mitbestimmung tedesca (letteralmente cogestione), propria dell’ordinamento giuridico tedesco e del Gruppo VW, progressivamente adattata al quadro legislativo, alla prassi sindacale e alla cultura gestionale italiana.
Se e quanto questo esperimento possa dirsi riuscito, con quali esiti dal punto dei vista dei protagonisti (lavoratori/lavoratrici, Risorse Umane, rappresentanti sindacali, manager), o anche ad una valutazione, per così dire, oggettiva, collegabile agli effetti generali sul lavoro, al clima aziendale complessivo, all’andamento dell’azienda nel presente e nel futuro, costituiscono appunto il focus di questo scritto. Alla base vi è una ricerca etnografica condotta entro il perimetro aziendale, in base ad un accordo di durata triennale stipulato con l’azienda, come si dirà più avanti:[3] il punto di vista dei protagonisti, secondo il vertice visivo antropologico, le loro considerazioni e valutazioni sui processi in atto, forniscono un quadro articolato e complesso, denso di originalità, che è quanto l’interpretazione antropologica intende restituire.
Sebbene l’Antropologia del lavoro e dell’impresa non possa giovarsi a tutt’oggi, in Italia, di un vero e proprio corpus di studi ampiamente costituto, tuttavia l’attenzione per l’impresa è cresciuta negli ultimi anni, soprattutto in campo internazionale, e si è rivolta agli effetti prodotti dalla recente crisi economica su diversi comparti produttivi [Mollona, De Neve, Parry 2009, D’Alosio e Ghezzi 2016, Narotzky e Goddard 2017, Spyridakis 2018], agli effetti prodotti sulle condizioni di lavoro lungo le catene della produzione e della fornitura su scala globale [Harvey, Krohn-Hansen 2018], alle strategie di sussistenza messe in atto per riconfigurare aree e settori investiti da trasformazioni e da processi di deindustrializzazione [Narotzky, Smith 2006, Spyridakis 2013, India 2017].
Per quanto attiene al ruolo del sindacato di fronte alle trasformazioni dell’epoca neoliberista, da più parti è stato rilevato che la legislazione in materia di protezione del lavoro è divenuta, su scala globale, progressivamente meno forte, con un uso crescente di contratti temporanei ed una facilitazione dei licenziamenti, con una notevole riduzione dei diritti sindacali e della possibilità di ricorso allo sciopero [Dore 2005]. Non a caso l’ILO, nel 2017, pone come questione centrale le relazioni industriali e il dialogo sociale dopo la crisi economica e finanziaria, con l’assunto che si tratti di un pilastro fondamentale per il ritorno ad una crescita economica positiva, all’incremento della produttività e dei salari, garantendo al contempo “la pace sociale ed industriale” [Guardiancich, Molina 2017,VI].
Dal canto suo Harvey, nella ben nota classificazione che in maniera volutamente schematica oppone la modernità fordista e la postmodernità flessibile, intese come due regimi di accumulazione e di regolamentazione contrapposti, annovera il sindacato e la sua funzione come osteggiati e superati dall’individualismo: si tratta di una considerazione collocata nella sua teoria generale, che tiene comunque conto della costante dinamica del capitalismo, entro cui le opposizioni, delineate solo schematicamente come tali, tendono sempre a oscillare e a compenetrarsi, generando configurazioni di volta in volta originali [Harvey 2010, 411 e segg].
Nel loro lavoro rivolto specificamente ad un’antropologia dei sindacati, Durrenberger e Reichart [2010] rivolgono l’attenzione alla costante tensione, sempre più considerata come opposizione, tra fini individuali e fini collettivi, una situazione che molta letteratura riconosce come uno dei tratti salienti del capitalismo globale attuale [Kasmir, Carbonella 2014]. I nostri autori si chiedono dunque, come ipotesi, cosa succede ai sindacati che si vedono negare, in certe condizioni, la possibilità di azione collettiva, e come possono organizzare i loro membri, se questa azione diviene sempre più inaccessibile o impraticabile, minando così la funzione storica essenziale del sindacato [Durrenberger, Reichart 2010]. Inoltre, essi si chiedono come un’azione collettiva che non risponda immediatamente all’interesse degli stessi singoli che la stanno sostenendo, possa essere sostenuta e perseguita per raggiungere obiettivi più astratti e più a lungo termine [ivi, 3]. Si tratta, evidentemente, di quesiti che investono radicalmente il significato e il valore dell’agire sindacale, in una fase di trasformazione economica che vede mutare radicalmente il suo ruolo. L’ipotesi che muove questo scritto tiene conto di questi interrogativi, cercando di rispondere a partire dal caso studio di un’esperienza sindacale e di relazioni industriali originale e per certi versi anomala per la situazione italiana: quella di Automobili Lamborghini e del suo sistema di relazioni industriali “alla tedesca”. L’etnografia, di cui si dirà, è in corso da oltre due anni all’interno dell’azienda, con estensioni di un’etnografia multi-situata anche nelle sedi tedesche di Audi (Ingolstadt), e di Wolfsburg, sede del Gruppo VW e della storica fabbrica fondata nel 1937. In via di ipotesi, il modello di relazioni industriali/sindacali, sperimentato in azienda, costituisce un adattamento italiano del modello originario (mitbestimmung) vigente nella casa madre, da questa propagato e sostenuto con un nucleo di valori centrali, sottoposti poi ai vari sincretismi realizzati a livello locale. Come pertiene ai sincretismi, il risultato finale è qualcosa diverso e originale rispetto agli elementi originari, e in questo caso si tratta di un risultato in cui tradizione italiana, visione aziendale e azione sindacale, si fondono e si trasformano in un adattivo modello di partecipazione, in una forma di dialogo industriale, che nel suo complesso produce almeno due importanti risultati: un’azione cooperativa e collaborativa (anche se non priva di punti di tensione), in grado di produrre, nell’immediato, un buon clima di lavoro in azienda e una buona contrattazione di secondo livello, dal punto di vista dei lavoratori; secondariamente, a più lungo raggio, in base ai principi derivati dalla mitbestimmung, un esempio di democrazia industriale alquanto divergente dalla tradizione italiana, del settore automotive e non solo. Nella traccia di Durrenberger e Reichart, non si tratta certo una quadratura del cerchio circa l’inconciliabilità crescente di interessi individuali e collettivi, ma quanto meno di un certo equilibrio, come si vedrà, in grado di concorrere a buoni risultati dal punto di vista sia aziendale sia sindacale. Gli esiti si riverberano nelle vite e negli orizzonti dei lavoratori e appaiono garantire una agevole quotidianità nel lavoro e una prospettiva futura positiva e fiduciosa, nella cornice di una multinazionale che ha raggiunto il primato di costruttore mondiale, pur attraversando un momento di forte criticità legato al cosiddetto diesel-gate[4]; la crescita economico-produttiva del sito locale, dal canto suo, testimonia invece dei buoni risultati produttivi ed economici, complessivamente raggiunti nell’originale esperimento.[5]
Il termine traduzione, con cui viene qui indicato il processo di costruzione e aggiustamento progressivo di un sistema improntato “alla tedesca”, viene utilizzato nel senso che ad esso conferisce Geertz, nella sua teoria interpretativa della cultura [Geertz 1988, 1998]: analogamente alla traduzione culturale operata dal processo analitico-interpretativo proprio del lavoro antropologico, i protagonisti della presente etnografia, lavoratori e lavoratrici (aderenti al sindacato e non), membri delle Risorse Umane (HR), rappresentanti sindacali si adoperano nel loro insieme, a vari livelli, per estrapolare dal contesto culturale originario principi e valori della cogestione e produrne un’applicazione, rimodulata entro una cornice legale e culturale diversa, quale quella italiana. Tale cornice risulta diversa dal punto di vista del diritto aziendale, della tradizione di HR e sindacato e dalle prassi di interrelazione, storicamente sedimentate, in questi due ambiti. Pur nello sforzo di restare il più possibile fedeli ai principi originari, proprio come accade per i principi e valori “esotici” oggetto della traduzione antropologica, i principi esogeni originari di relazioni industriali passano per le cornici valoriali, per le esperienze e i punti divista dei soggetti che ne sono protagonisti qui, nella vita aziendale: come per gli antropologi, nella linea tracciata da Geertz, la mediazione tra i due punti di vista, tra i concetti che egli chiama vicini e quelli lontani, ne rappresenta il faticoso risultato.
Prima di entrare nel merito della struttura del sistema partecipativo di matrice tedesca e delle sue concrete traduzioni e applicazioni, è opportuno un cenno all’incontro e alla costruzione della relazione etnografica: da questi dipendono infatti gli esiti, nonché la possibilità stessa di realizzare un’analisi ispirata alle ipotesi sopra annunciate.
La ricerca in Automobili Lamborghini è stata svolta all’interno del perimetro aziendale, attraverso la stipula di un protocollo di ricerca, che ha consentito all’antropologa di effettuare un corpus di interviste in azienda, e poi progressivamente di partecipare come osservatrice, in maniera reiterata e con una certa continuità, ad alcuni momenti della vita aziendale. Si è trattato in particolare di quelle fasi rilevanti per l’applicazione dei principi di relazioni industriali provenienti dal Gruppo VW: i welcome on boardaziendali, nei quali viene presentata ai nuovi assunti l’Azienda e, contestualmente, il sistema di relazioni industriali (RI) in essa vigente; le assemblee di fabbrica, dove viene esteso a tutti i lavoratori il diritto all’informazione, che l’azienda deve riconoscere alle RSU sulla base dei principi della casa madre, come si vedrà più avanti; alcuni eventi formativi rivolti specificamente al focus delle RI e del modello sindacale, che hanno coinvolto in particolare impiegati e manager; da ultimo, aspetto più rilevante, la partecipazione ad alcune Commissioni Tecniche Bilaterali (CTB), che rappresentano i gangli, per così dire, del modello partecipativo nelle procedure concerete della prassi aziendale. Le commissioni, in totale quattro, sono preposte alla gestione e soluzione di problematiche di vari aspetti della produzione e dell’organizzazione.[6] Oltre a questo, sono state svolte interviste in profondità alle RSU, a membri di HR, a lavoratori/lavoratrici e a manager.
La possibilità di utilizzare una metodologia etnografica, della durata complessiva (attualmente) di circa tre anni, con una inevitabile invasività nella vita aziendale, è questione che necessita di essere brevemente sviscerata, trattandosi di un aspetto tutt’altro che scontato, e per certi versi inaspettato, poco consueto nella ricerca su e in aziende, se svolta con obiettivi autonomi dalle aziende stesse. Il primo contatto è stato da me richiesto attraverso la CGIL bolognese e, al contempo, attraverso una stagista dell’azienda Ducati Motor Holding di Borgo Panigale (Bologna), anch’essa di proprietà del Gruppo VW, e rivolto a colui che sapevo (dalla CGIL bolognese) essere il “leader” della rappresentanza sindacale in Lamborghini; stabilito un appuntamento telefonico, mi sono trovata in una situazione particolare e piuttosto sorprendente: ovvero un colloquio a tre voci, in viva voce, che includeva il leader delle RSU sopra citato e il responsabile delle relazioni sindacali (dell’area HR) di Automobili Lamborghini. Dopo un primo incontro, alla CGIL di Bologna con il sindacalista aziendale, già dal secondo appuntamento (nel febbraio 2016, avvenuto all’interno dell’azienda) si è riproposta questa terna, di ruoli e persone, che mi ha poi accompagnata nella ricerca entro l’azienda, fino ad oggi.
Non si tratta ovviamente di una terna casuale: il binomio che include il maggior eletto delle RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie) interne e il responsabile HR per le relazioni sindacali rappresenta, per usare una metafora, la punta dell’iceberg del sistema partecipativo aziendale. La collaborazione, il confronto, in qualche caso anche lo scontro, tra HR e sindacato rappresenta la sintesi del modello, che vede compartecipare, appunto, le due parti (che nella tradizione italiana, e non solo, siamo abituati a pensare come controparti) rispetto a tutte le questioni aziendali, dalle più minute alle più grandi e importanti, fino a giungere al tavolo della contrattazione di secondo livello. Anche la richiesta di poter svolgere la mia ricerca non all’esterno, ma entro il perimetro aziendale, è stata dunque prima vagliata e poi accolta da entrambe le parti (con l’avallo dei vertici, direttore di stabilimento e direttore del personale). Il seguito, nella sintesi che se ne può qui fornire, ha comportato la laboriosa, reciproca costruzione di un rapporto di chiarezza e di fiducia: da parte mia nel manifestare curiosità e interrogativi nei confronti del sistema di relazioni e dei processi di lavoro, al contempo chiarendo e ribadendo la mia posizione indipendente da qualunque interesse aziendale o sindacale. Da parte aziendale, ovviamente, la ancor più (comprensibilmente) faticosa accettazione di una presenza e di uno sguardo esterni, che ha richiesto una disponibilità anche temporale, nel concorrere a rispondere alle mie richieste, a consentire di fatto l’organizzazione concreta di taluni aspetti del lavoro, ad ascoltare e a confrontarsi con me su varie questioni che, di volta in volta, si ponevano alla mia attenzione: soprattutto acconsentendo, progressivamente, alla presenza dell’antropologa in taluni momenti della vita aziendale. Da parte mia, la frequente, reiterata comunicazione delle mie attività, si è progressivamente trasformata in un dialogo aperto e in un confronto molto costruttivo, ai fini della comprensione dei processi in atto e dei risultati stessi dell’attività di ricerca.
Non posso ascrivere queste condizioni di base, che hanno reso possibile, mai ostacolato e anzi molto agevolato il mio lavoro, alla sola disponibilità delle persone, che ovviamente c’è stata, in maniera cospicua e con un ruolo fondamentale, quello di rendermi possibile di discutere con il personale a vari livelli e interagire nella vita della fabbrica. Tuttavia è anche necessario fare riferimento ad un quadro di relazioni industriali che, all’interno dell’azienda, si articola e si regge su dialogo e discussione, su processi decisionali anche difficili e talvolta conflittuali, ma sempre ispirati e mirati alla condivisione e alla partecipazione bilaterale. E’ dunque all’interno delle loro pratiche di partecipazione che la ricerca, e la mia funzione di antropologa, si sono in un certo senso inserite, in una maniera molto proficua per gli esiti della ricerca stessa: con una cooperazione più immediata e diretta con il sindacato, verso il quale non ho nascosto una certa condivisione ideologica e sintonia di posizioni, anche se non priva di qualche momento di criticità; poi man mano con HR aziendale, attraverso un processo di reciproca conoscenza e costruzione di fiducia, forse più lento e diluito nel tempo, ma molto efficace nei suoi risultati. Attraverso HR, infatti, si sono aperti alla mia attenzione ambiti di vita aziendale, notoriamente poco accessibili per osservatori e studiosi esterni: interviste con manager e top manager, con membri di HR stessa, partecipazioni a momenti istituzionali. All’insegna di questo, tutt’oggi continuiamo a condividere e ragionare con HR e sindacato, che hanno di fatto rappresentato gli interlocutori costanti di una co-costruzione del campo di ricerca, circa le modalità di restituzione dei risultati: quindi come comunicarli a livello aziendale, quale uso farne, sempre mantenendo la mia posizione di “sguardo” e di “voce” esterni, e al contempo trovando dall’altra parte un ulteriore utile stimolo, nell’ultima fase dell’etnografia, in vista di una presentazione del mio lavoro a coloro che ne sono stati, per così dire, l’oggetto.
Insomma, nel posizionamento assunto nella ricerca, sempre centrale per comprenderne percorsi ed esiti [Bourdieu 1992, 2003, 2003b], molto ha giocato quello stesso modello partecipativo, che costituisce in buona parte il mio oggetto di studio: all’interno di un sistema dinamico non lineare, tipico dell’etnografia e descritto da Agar [2004, 2010], spesso in grado di auto-organizzarsi in esiti sorprendenti, come in questo caso, col supporto o anche le avversità che possono dipendere da caratteristiche endogene della realtà oggetto di studio. Credo di poter dire di essere stata accolta e in un certo senso parzialmente inclusa nel dialogo partecipativo, con la possibilità di tracciare un percorso etnografico che, guardato con il consueto sforzo di distanziamento antropologico [Kilani 2011], non può che apparirmi originale e per certi versi irripetibile.
Il Gruppo VW regola la sua organizzazione, negli stabilimenti situati in Germania, sulla base della mitbestimmung (letteralmente cogestione). Nell’opinione diffusa, la cogestione si riferisce alla partecipazione azionaria dei lavoratori, ma in realtà essa ha un inizio assai remoto in Germania, che risale agli anni 20 e ancor più indietro, che si è poi sviluppato in forme diverse. La cogestione, secondo una guida divulgativa internazionale, si rivolge ad almeno quattro obiettivi basilari: l’eguaglianza tra capitale e lavoro, la democrazia nell’economia, lo sviluppo sociale, il controllo del potere economico [Page 2011: 10].[7]
Come fanno notare i giuristi, il termine partecipazione è invece un termine-ombrello, sotto il quale si possono includere questioni e aspetti diversi. Nell’Enciclopedia del Diritto italiana, si opera una distinzione a proposito di una questione controversa, che concerne due forme basilari: si tratta, da un lato, della partecipazione azionaria dei lavoratori, concernente una forma di retribuzione partecipativa legata alla produttività e/o redditività aziendale (detta anche partecipazione diretta), e dall’altro della partecipazione legata agli istituti legali o contrattuali mediante i quali i lavoratori, anche attraverso le loro rappresentanze, assumono peso nella formazione delle regole e delle decisioni aziendali che li riguardano (detta partecipazione indiretta) [Santagata 2016, 1015]. In quest’ultimo caso, la partecipazione dei lavoratori si collega più direttamente alla questione della democrazia industriale.
Il dibattito in Italia, da almeno un ventennio, riporta il carattere ampio e talvolta indefinito del termine nella sua diffusione, e tuttavia, come osservava Baglioni, la partecipazione «pur essendo da sempre presente nel dibattito sulla regolazione del rapporto di lavoro dipendente e salariato, non ha avuto una decisiva influenza nella costruzione e nell’evoluzione dei sistemi nazionali di relazioni industriali» [Baglioni 2002,14]. Più recentemente, altri autori, come Ferrari, non esitano ad affermare che «la partecipazione non è nel DNA dell’impresa e delle organizzazioni di lavoro. Non lo è per molti imprenditori (alcuni temono di perdere il controllo del people, altri sostengono che l’azienda non è una democrazia…), non lo è per un’ampia percentuale dei manager (che preferiscono rigidamente alla struttura gerarchico-funzionale, uno stile che genera il comando con i collaboratori e l’obbedienza verso i capi), non lo è per gran parte degli appartenenti alle organizzazioni sindacali (interni e/o esterni all’azienda), più orientati a una contrattazione a volte antagonistica, a volte solo rivendicativa» [Ferrari 2017,109].
Ancora altri autori, come Zaninelli, si sono adoperati per ricostruire le radici storiche del ritardo nelle esperienze di partecipazioni dei lavoratori in Italia, facendole risalire agli anni successivi alla prima guerra mondiale e più indietro ancora, fino ai ben noti limiti di amalgama di classe dell’unificazione nazionale [Zaninelli 2018]; infine, non mancano le considerazioni delle oggettive difficoltà create all’avanzamento della partecipazione sia dal cambiamento culturale che essa presuppone, sia dalle nuove, complesse sfide dal recente mutamento dell’economia e delle condizioni della produzione [Antoniazzi 2018].
Non è possibile, per ragioni di spazio, analizzare compiutamente le origini del sistema della cogestione in Germania. E’ opportuno però ricordare che il sistema vigente in VW e nel Land della Bassa Sassonia (dove VW è nata), generalmente considerato la forma più avanzata di cogestione, consegue direttamente alla fondazione hitleriana della fabbrica: nelle intenzioni del fuhrer, Volkswagen doveva rappresentare la grande scommessa della Germania sulla motorizzazione, nonché la possibilità di avvicinarla al modello di società consumistica americana, nell’idea (non priva di ambivalenze) di imitare ma anche di competere con il grande costruttore americano Ford. Nel 1937, il trasferimento della nascente fabbrica RDA dall’associazione per la manifattura automobilistica al fronte nazista del lavoro, realizzò il controllo hitleriano del grande progetto di produzione automobilistica di massa [Konig 2004]. Il susseguirsi del declino dell’economia e dei diritti dei lavoratori, la cancellazione del sindacato, disegnano nel loro insieme il terribile tracollo del lavoro durante il Terzo Reich, efficacemente descritto da alcuni storici [Mason 1966]: ed è come conseguenza di questa fase storica che, nella Germania post-nazista, diviene in sostanza comprensibile il forte sistema di democrazia industriale, incarnato dalla VW nello stesso panorama tedesco. Dobbiamo anche ricordare, però, che la mitbestimmung ha radici più antiche dal punto di vista legislativo, negli anni della repubblica di Weimar (1918-1922) e anche prima, come fanno notare gli esperti, già dalla metà del XIX secolo, quando la contrattazione improntata alla co-determinazione era diffusa in tutta la Germania, tanto da ispirare poi le leggi che progressivamente la hanno ratificata [Mc Gaughey 2015].
Come è noto, la cogestione non è prevista dal nostro ordinamento giuridico (per quanto la Costituzione contenga una generica esortazione)[8], dunque la sua declinazione, dalla casa madre VW in Lamborghini, va intesa come una sorta di traduzione dei principi della mitbestimmung, che si realizza più ampiamente a cascata, in forme omologate dall’alto ma presumibilmente differenziate dal basso, in tutti gli altri siti del Gruppo VW nel mondo.[9]
Nel 1990 il Gruppo VW ha costituito un organismo centrale, il Comitato Aziendale Europeo, che rappresenta una struttura di raccordo dei siti europei, ben quattro anni prima che il Consiglio dell’Unione Europea adottasse la direttiva 94/45/CE che ne suggeriva, per i gruppi multinazionali, la costituzione [Telljohann 2014]. Otto anni dopo, nel 1998, veniva creata un’analoga struttura di rappresentanza a livello mondiale, denominata Comitato Aziendale Mondiale (CAM).
Allo scopo di sostenere e diffondere un sistema organizzativo e di relazioni industriali, come si comprende, variegato nelle sue declinazioni estere, il Gruppo ha poi varato e diffuso, nel 2009, un documento denominato Carta dei Rapporti di Lavoro in seno al Gruppo Volkswagen (nella traduzione italiana dell’originale, promulgata a Zwickau il 29 ottobre 2009).[10] La Charta (così denominata in contesto internazionale) esplicita e ribadisce gli accordi fondamentali presi in seno al Gruppo, la responsabilità sociale, una connessione sempre più stretta fra gli stabilimenti e le strutture gestionali e produttive del Gruppo, la standardizzazione delle procedure esistenti. Ma soprattutto, si esprime nel merito del significato e del valore attribuito alla partecipazione: «Il termine “partecipazione” sta invece ad indicare il coinvolgimento attivo dei dipendenti nel processo di sviluppo dell’azienda. I dipendenti contribuiscono a loro volta al miglioramento continuo dei processi e delle condizioni lavorative e condividono i frutti dei successi conseguiti dall’azienda. La partecipazione è contraddistinta da un atteggiamento rispettoso e collaborativo delle parti coinvolte e dalla coscienza di una responsabilità collettiva nei confronti dell’azienda e dei suoi dipendenti. L’elaborazione attiva dei diritti di partecipazione e il loro esercizio vengono così a costituire dei fattori di innovazione per l’azienda» [Charta, 1].
Le commissioni tecniche Bilaterali (CTB), dal canto loro, costituiscono invece i gangli centrali della partecipazione nella sua attuazione, essendo dei momenti di incontro e discussione paritetici tra azienda, manager, lavoratori, tecnici interni e esterni nella forma di consulenti, in grado di analizzare e dirimere varie questioni, di ordine produttivo o amministrativo, prima che intervengano soluzioni o variazioni nei processi del lavoro.
Nel complesso, secondo quanto ribadito nella Charta, i pilastri della partecipazione, al di fuori dei confini nazionali della cogestione, vengono riconosciuti in tre ordini di diritti: diritti di informazione, diritti di consultazione, diritti di cogestione. Quest’ultimo punto (diritti di cogestione), esplicitamente rivolto al modello del Gruppo in Germania, viene tradotto in Lamborghini con la voce contrattazione intendendo che, in assenza di partecipazione azionaria o gestionale diretta e sancita, è la contrattazione cosiddetta di secondo livello (quella cioè di livello aziendale) che deve garantire taluni aspetti ispirati dalla cogestione. Si tratta di una palese correzione, dettata da un quadro normativo diverso, che assegna al contratto locale il diritto/dovere, per così dire, di garantire forme di partecipazione decisionale dei lavoratori, ma anche di esserne in qualche modo il risultato.
Per descrivere sinteticamente l’altra componente del sistema di RI partecipativo in Lamborghini, cioè il sindacato, dobbiamo innanzitutto dire che storicamente, anche prima dell’acquisto da parte di VW (1998), la FIOM ha sempre detenuto una posizione ampiamente maggioritaria. Nella fase di ricerca, al 2017 la FIOM esprimeva 18 RSU su complessive 19 (elette nel 2014); nel rinnovo della rappresentanza, con le elezioni del dicembre 2017, la FIOM esprime 19 RSU su 20, con un incremento della componente femminile (da tre a cinque) e della componente impiegatizia (da tre a otto)[11].
Inutile negare che è proprio questo l’elemento che maggiormente colpisce l’osservatore esterno, nell’accingersi a studiare il particolare sistema di relazioni industriali partecipative: una maggioranza del sindacato più radicale e combattivo, che sfiora la totalità, e al contempo un sistema di dialogo, collaborazione e confronto diretto con l’azienda, che con questa condivide taluni processi decisionali. E’ pur vero che, come la FIOM locale rimarca, già nel 1995, cioè prima della proprietà VW, il contratto locale includeva una clausola di raffreddamento, attraverso cui le parti si impegnavano a ricercare una soluzione consensuale e condivisa alle questioni aziendali, e che esplicitamente scoraggiava dall’avviare qualunque azione unilaterale che potesse alimentare conflitti e danni economici per l’azienda (ivi incluso lo sciopero). Ciò nonostante, la FIOM emiliana è pur sempre il sindacato che, tra il 1967 e il 1968, per quanto inserito nel ciclo alternato delle lotte, vede il più alto numero di ore di scioperi aziendali in Italia, nonché il ritorno del conflitto strutturato all’inizio del 1968, nelle grandi aziende della produzione meccanica, su questioni consolidate, come il premio di produzione, o anche su questioni nuove e antesignane per la contrattazione vigente, come la contestazione del meccanismo del cottimo [Gallo 2010, 44-45]. Questo ha attribuito alla FIOM un ruolo costante di apripista per la conquista di nuovi diritti per i lavoratori entro l’area emiliana, da estendere poi a livello nazionale.
Da queste brevi premesse ci accingiamo, col supporto degli strumenti etnografici, a descrivere l’originale sincretismo realizzato in Lamborghini, a livello delle istituzioni e delle prassi, in tema di partecipazione dei lavoratori.
Sono stata ammessa a partecipare per la prima volta ad una riunione di CTB nel novembre del 2016, dopo averne fatto richiesta ad HR e col consenso del sindacato. Questa prima riunione aveva come oggetto il piano formativo per la formazione dei controllori di qualità (checker), elaborato attraverso un manuale, e le relative normative, provenienti da Audi. I componenti presenti erano il responsabile delle relazioni sindacali, una sua collaboratrice sempre di HR, il capo dei checkers del reparto controllo qualità collocato alla fine delle linee di montaggio (denominata ZP7), il capo area della produzione, il responsabile della qualità, una responsabile dell’area formazione, tre rappresentanti sindacali FIOM ed uno FIM (il solo), lo stagista assegnato in supporto alle attività sindacali. La riunione si è tenuta occasionalmente, in assenza di altri ambienti al momento disponibili, nella saletta sindacale: una struttura apposita che reca sulla porta una grossa bandiera rossa della FIOM, con all’interno un grosso tavolo rettangolare, uno video per proiezioni, varie sedie, una saletta annessa con i servizi e uno spazio destinato a un piccolo archivio e alla macchina fotocopiatrice. Io mi trovavo già lì, mi sono presentata a coloro che ancora non mi conoscevano e poco dopo, all’inizio della riunione, sono stata presentata in via ufficiale da HR, come una professoressa di Antropologia che stava svolgendo una ricerca. Questo mi ha aiutata a sciogliere il mio imbarazzo, ero consapevole di essere una presenza anomala e invasiva, inevitabilmente percepita in questi termini. La discussione sui temi ha iniziato subito a fluire, e la mia presenza è sembrata a poco a poco cadere come dimenticata (mai del tutto, ovviamente).
Oggetto della riunione era il rilascio del patentino di qualità, richiesto su modello di Audi per i controllori, e di conseguenza il piano formativo per il rilascio di tale patentino: il responsabile qualità ha cominciato con illustrare le linee guida, poiché egli rappresenta il ponte tra Audi e il sito di Sant’Agata, essendo stato personalmente in Audi ad apprendere gli standard di qualità e le procedure che lì sono vigenti; egli ha spiegato subito che la standardizzazione ha valore per tutti gli stabilimenti del gruppo, che ci sono dei manuali di qualità anch’essi standardizzati, che anche localmente bisognava approntare l’elaborazione di un manuale per ciascun modello di vettura (le due versioni, spider e coupé, dei i due modelli di Aventador e Huracàn), allo scopo di ottenere la standardizzazione tutte le procedure di qualità per ogni passaggio della lavorazione. La formazione al riguardo risultava complessa e lunga, circa quattro settimane, e doveva includere le soft skill, la formazione teorica e poi la formazione cosiddetta on the job. Uno dei rappresentanti sindacali (comunemente denominati RSU) della FIOM, si è informato circa il fatto che questa formazione riguardasse i vecchi o nuovi lavoratori, costatando che per i vecchi è sempre più difficile accettare e formarsi a nuovi metodi di lavoro. Il rappresentante FIM si è espresso anch’egli favorevolmente, dal momento che questa standardizzazione della qualità agisce positivamente, perché consente di evitare l’arbitrarietà, e dunque anche le eventuali discussioni o contestazioni nel rilevamento dei problemi di qualità sulle vetture. Si tratta di una differenza tipica tra reparti della produzione automobilistica, l’area produzione e l’area qualità, le quali, anche se solo in forma latente, divergono negli obiettivi: portare avanti il numero delle vetture prodotte, per la prima, correggerne le difettosità anche a scapito dei numeri, per la seconda.
Successivamente, i rappresentanti di HR hanno espresso una battuta sul fatto che mi avrebbero invitata più spesso, con riferimento ai toni sempre pacati della discussione in corso: siamo scoppiati tutti a ridere, nella consapevolezza che, ovviamente, non potesse andare sempre così. Per la formazione dei team leader, è stata anche ribadita la necessità di valutare inizialmente le soft skills, ovvero di selezionare persone con capacità sociali, disposizione e propensione allo scambio di informazioni e a relazionarsi con gli altri, con modalità di empatia e abilità comunicative. Le cosiddette soft skills, come ho verificato in seguito, sono una componente centrale e importante, richiesta per tutti coloro con funzioni gestionali: attraverso queste, infatti, si ha modo di esercitare funzioni di comando e di controllo sul lavoro prive di accenti di autoritarismo e di derive vessatorie, che mi sono sembrate del tutto prevalenti nello stile aziendale.
Le brevi note riportate accennano molto sinteticamente alla discussione e all’analisi di contenuti tecnici complessi, quali quelli inerenti la qualità delle vetture secondo gli standard Audi, di non facile somministrazione in termini formativi, come si comprende. Oltretutto la qualità costituisce questione centrale sia per Audi, i cui standard sono notoriamente molto alti, sia per Lamborghini, dato il tipo di vetture prodotte. Questo breve esempio, tuttavia, deve condurci ad una riflessione più generale sul metodo messo in atto all’interno di tali commissioni (CTB). Le CTB hanno, in base a quanto previsto dal contratto aziendale, un potere consultivo, cioè di discussione e consultazione, ma non deliberativo: tuttavia, le discussioni su temi vari che vengono fatte in CTB talvolta sono poi riprese negli accordi sindacali, stipulati ai tavoli di contrattazione, per l’accordo triennale aziendale di secondo livello, o anche per gli accordi singoli, detti integrativi rispetto al primo (triennale). Le consultazioni e le discussioni, avviate in CTB, spesso preludono e anticipano quanto poi verrà ratificato nell’accordo, tanto che l’accordo stesso può richiamare quanto discusso in CTB (e sistematicamente verbalizzato). Sentiamo come si esprime il responsabile delle relazioni sindacale di HR:
Ti faccio un esempio: nell’accordo X (…) tutto il lavoro di capire chi, quando, come, perché avesse diritto al beneficio, rispetto a che tipo di formazione, abbiamo fatto tutto in commissione tecnica bilaterale: tanto che l’accordo sindacale ha una sua struttura di accordo sulla base economica, ma poi rimanda, e quindi richiama, con un allegato, il verbale tecnico di commissione. E’ proprio strutturato in questa maniera: va anche a nobilitare, se vuoi, come modalità, il lavoro della CTB. Cioè io nell’accordo sindacale richiamo un accordo tecnico, quindi gli do la dignità che gli spetta. Esplicitamente noi richiamiamo il verbale di commissione. Per esempio l’accordo sul premio di risultato: anche qui l’accordo recepisce il verbale di commissione tecnica bilaterale.
G.N., Responsabile HR Relazioni sindacali, 40 anni, laureato.
Come si comprende, da un lato le commissioni facilitano e fluidificano, per così dire, l’accordo ai fini del contratto, risolvendo in via preventiva questioni tecniche e non, e trovando su queste stesse questioni i punti di mediazione e le relative soluzioni concordate; dall’altro, sono anche un modo di praticare le relazioni improntate alla partecipazione che vigono in azienda, allo stesso tempo rafforzandole. Da ultimo, agiscono come facilitatori del tavolo ove si firmerà l’accordo aziendale. Esse rappresentano dunque un dialogo a monte, i cui risultati e la loro ratifica possono culminare, più o meno direttamente, a valle negli accordi: come si comprende, facilitando questi ultimi.
“Per cui, da un certo punto di vista, è vero, è dispendioso, perché comunque vuol dire fare n. incontri di CTB… però in CTB hai la serenità, cioè… – almeno, per quella che è la mia esperienza, ma penso che non sia soltanto la mia – la sede della CTB ha consentito tante volte di fare dei ragionamenti intorno a un tavolo tondo. E risolvendo tante cose con la serenità di potersi sedere in maniera alternata, un membro aziendale un membro sindacale, con un… uno smussamento dei ruoli. Perché nella CTB ci sono tre membri di parte aziendale e tre membri di parte sindacale. E questo ci ha aiutato diverse volte ad arrivare sul tavolo sindacale dove andare veramente soltanto a definire, per esempio, gli aspetti economici, che sono una parte tosta.”
Dalle parole del nostro interlocutore HR si comprende che la discussione sugli aspetti economici è sempre molto dura, quindi anche inevitabilmente conflittuale, e del resto ciò che viene praticata non può essere, ragionevolmente, un’eliminazione sistematica del conflitto. Nel nostro dialogo che mira a comprendere bene le funzioni, chiedo al mio interlocutore se la CTB non abbia anche la funzione di esplicitare gli aspetti conflittuali, in via preventiva, rispetto e in funzione agli accordi: egli si dice d’accordo. La metafora da lui utilizzata del tavolo tondo, diverso dal tavolo quadrato che pone gli interlocutori in posizione frontale (e non circolare), la possibilità dell’eliminazione degli spigoli angolari, sembra rendere bene il senso del peculiare assetto dei ruoli e delle funzioni, quando articolati (i primi) ed espletate (le seconde) entro la cornice delle CTB.
Per quanto attiene al secondo aspetto istituzionale che qui si intende brevemente descrivere, l’azienda ha varato, a partire da gennaio 2017, un programma di formazione per impiegati, quadri e manager, rivolto ai temi della partecipazione. Si è trattato di un programma di incontri periodici, in cui il personale partecipava a rotazione, organizzati sia in nella modalità di un’intera giornata formativa, svolta fuori azienda, generalmente in una struttura deputata ad incontri aziendali (con sala convegno e ristorante/bar), sia in presentazioni più brevi della durata di mezza giornata, svolte in azienda; nell’estensione prevista poi per tutta la popolazione aziendale (nel 2019), gli eventi saranno della durata di due ore circa. Nel primo caso, la formazione era assegnata ad una società milanese, che lavora su appalto esterno. Nel secondo caso, gli incontri in azienda sono svolti dal personale del training center aziendale. Infine, un ulteriore spaccato di presentazione del sistema partecipativo avviene regolarmente negli incontri di benvenuto, rivolti al personale di nuova assunzione, i cosiddetti welcome on board: organizzati da un membro di HR e da uno della rappresentanza sindacale, essi si rivolgono al personale che viene immesso nei ruoli, con l’intento di presentare brevemente, in un incontro di circa un’ora, l’azienda in generale e, parallelamente, il sindacato e il suo ruolo nel sistema partecipativo.
Gli incontri di formazione sono stati finora rivolti proprio a quella parte del personale, i cosiddetti white collars, tradizionalmente meno inclini a iscriversi e partecipare al sindacato, e quindi poco o nulla informati del sistema di relazioni industriali, proveniente dalla casa madre tedesca e declinato in azienda. Per la breve descrizione che se ne può dare qui, gli incontri di formazione lunghi hanno avuto una struttura che partiva da un focus group, in cui veniva richiesto ai partecipanti di esprime in una frase la loro idea di partecipazione su di un bigliettino adesivo (una tecnica di brainstorming); quindi i bigliettini, in forma anonima, venivano apposti su una lavagna cartacea, creando così un insieme di definizioni, su cui collettivamente e sotto la guida dei formatori (uno psicologo del lavoro e un sociologo) si iniziava a ragionare e a discutere. Seguivano poi interventi di lezione frontale, volti a spiegare la mitbestimmung tedesca, il suo funzionamento e i suoi principi di base, seguiti dall’illustrazione dei principi della Charta dei lavoratori del Gruppo VW e della sua crescente applicazione all’interno dell’azienda. Secondo le opinioni riportate dagli operatori e in base a quanto da me osservato nelle occasioni in cui ero presente, all’interno dei gruppi si poteva registrare un andamento altalenante, costituito da curiosità, interesse, ma anche disinteresse e resistenze: la mitbestimmung, e la partecipazione quale sua derivata, è infatti un sistema esogeno, lontano nel suo complesso dagli assetti aziendali italiani, dalla formazione dei manager e spesso difficile da comprendere nella pratica effettiva, che lascia supporre un’educazione e una sinergia tra le parti complessa e delicata, nel suo mix di informazione, consultazione, azione congiunta. Essa richiede, come illustrato nella formazione, interventi e prassi operative costruite sulla base di un dialogo costante e di una condivisione di prospettive: all’interno di una realtà produttiva che sempre, per sua struttura, è densa di visioni e di prassi diverse e distanti, quando non propriamente contrapposte (basti pensare banalmente ad obiettivi produttivi, tempi di lavoro, salari e premi, suddivisi per aree, reparti, ruoli e funzioni diverse, a partire dal solco più tradizionale tra aree di produzione, con la prevalenza di operai, e aree amministrative e commerciali, con prevalenza di impiegati, nonché alla già citata formazione gestionale dei manager).
Una breve descrizione di parti dei punti di vista sulla partecipazione, raccolti nel corso delle interviste, può completare la descrizione etnografica qui presentata. In sostanza, ciò che l’idea di partecipazione sembra contraddire è proprio la più classica delle opposizioni, quella tra capitale e lavoro, incarnata nella altrettanto classica divisione del lavoro tra manager/quadri e operai, questi ultimi destinati all’esecuzione di fini e forme del lavoro che essi stessi non hanno in buona misura deciso: un po’semplicisticamente, è appunto su questi margini di decisione che il modello originario della cogestione dovrebbe in buona misura incidere.
Possiamo innanzitutto avere un minuscolo spaccato degli effetti pratici della cogestione come praticata nella casa-madre in Germania, attraverso le parole di Klaus Mittermaier, direttore del Consiglio di Fabbrica centrale di Audi, ad Ingolstadt. Quando gli chiedo, al di là del ruolo legale del consiglio di fabbrica, come la partecipazione si traduca poi nella quotidianità della vita lavorativa in azienda, con quali ricadute e con quali effetti, egli mi risponde con un esempio:
Quando delle persone hanno delle idee su come l’azienda potrebbe produrre in modo più economico, è più che sensato utilizzare il principio della partecipazione per definire, per esempio, che una persona percepisca un premio (…) Per Ingolstadt e per Neckarsulm, per quanto riguarda le idee presentate dai dipendenti, è stato definito il seguente principio: se l’idea porta a un risparmio annuale di 100 mila euro per l’azienda, il lavoratore che ha presentato l’idea ha diritto a percepire il 10 per cento della somma risparmiata, quindi 10.000 euro.
(Klaus Mittermaier, Ingolstadt, luglio 2018)
A mia volta gli chiedo di farmi un esempio più concreto, relativo al caso degli operai, perché si potrebbe pensare che, in materia di idee innovative per il risparmio, siano soprattutto ingegneri e tecnici ad essere protagonisti, e meno gli altri livelli aziendali. Mittermaier mi spiega che questa è una obiezione classica che viene spesso sollevata, e che invece le cose vanno diversamente: cita quindi il caso di un operaio, che ha scoperto che una vite costava, da un altro fornitore, quattro centesimi in meno. La vite in questione, meno costosa, è stata poi utilizzata da tutto il Gruppo VW e non solo in Audi, producendo un risparmio di milioni di euro e un grosso guadagno per l’operaio in questione. Ovviamente, mi viene spiegato che questo è solo un caso, ma che l’obiettivo nel Gruppo è quello di rafforzare e diffondere uno stile di ascolto e valorizzazione dell’iniziativa individuale, sempre ai fini di un miglioramento collettivo, che tenga conto dei fini dell’azienda e di quelli del lavoratore. Egli spiega anche come le visite periodiche delle Risorse Umane di Audi, sempre insieme al sindacato, presso tutti i siti che fanno parte del Gruppo, abbiano l’obiettivo di ascoltare e dialogare, rispettivamente con esponenti di HR e con rappresentanti sindacali, per verificare sui due fronti l’andamento delle relazioni industriali improntate alla partecipazione.
Dal versante di Lamborghini, così ricorda, nel 2007, il rappresentante FIOM primo tra gli eletti, più di trent’anni di vita aziendale e sindacale, la prima occasione di invito a Pamplona, in Spagna, in un incontro mondiale del gruppo che preludeva e preparava la partecipazione al CAM (Comitato Aziendale Mondiale); a tale incontro partecipavano per la prima volta, da Lamborghini, lui stesso quale rappresentante dei lavoratori e il direttore del personale:
La mia impressione è che loro sono bravi: ti fanno sentire a casa, non ti fanno sentire… considera che Lamborghini, allora, eravamo 600, 700 dipendenti, nel Gruppo Audi erano 30.000, non sei neppure un reparto. Direi che l’impressione è sempre stata molto gradevole, non ti sei mai sentito un moscerino, e devo dire che ti hanno sempre ascoltato con attenzione. E’ chiaro che sta anche a te imporla, l’attenzione, non ti regala niente nessuno, la scena un po’ te la devi prendere, con molta educazione, molta delicatezza. (…) E devo dire che l’ambiente è sempre stato dei più favorevoli, poi credo che anche noi abbiamo saputo stare a quei tavoli, ecco. Credo che ci sia stata abbastanza serietà.
A.C., Coordinatore delle RSU, 58 anni, laureato.
E’ a questo punto che chiedo al coordinatore delle RSU perché si esprime con il noi, ben sapendo, anche per aver partecipato al CAE e al CAM, che è l’unico rappresentante dei lavoratori a partecipare per il sito Lamborghini. Una parte della sua risposta, a questo proposito, era in realtà già nota per me, in quanto riconducibile alla spiccata coscienza collettiva (in questo caso possiamo dire di classe) del sindacato bolognese, ed anche al fatto che, al ritorno da questi incontri, le informazioni e tutto quanto discusso nelle sedi del Gruppo vengono condivise e socializzate con le altre RSU e con tutti i lavoratori (attraverso i direttivi sindacali e le assemblee). Proprio la condivisione delle informazioni, come si è detto, è infatti uno dei pilastri della partecipazione. La seconda parte della sua spiegazione è però quella che concorre a chiarire al meglio le idee sul meccanismo della partecipazione: il noi si riferisce, come egli mi spiega, anche al duo composto da sé stesso, in quanto RSU, e dal direttore del personale, che rappresenta HR, e che in quel caso – almeno ad oggi dopo un rodaggio di oltre dieci anni di frequentazione di incontri formali internazionali (CAE e CAM) – deve appunto funzionare come un gruppo dotato di coesione, in grado di scambiarsi le idee prima, cioè di parlarsi con chiarezza sulle criticità e sugli ostacoli incontrati nella costruzione stessa del percorso aziendale di partecipazione. Tali ostacoli, che ci sono stati e che talvolta continuano ad esserci, nelle piccole e grandi criticità quotidiane che possono indurre a divergenze frontali, devono essere smussati e metabolizzati nella forma della condivisione e della mediazione, ed è probabilmente questa una buona parte del lavoro quotidiano di co-costruzione della partecipazione, attuato in Lamborghini.
Bisogna dunque tenere in conto anche il ruolo del sindacato locale, stante la tradizione più oppositiva e meno incline alla collaborazione con quella che, a tutti gli effetti, è stata storicamente sempre considerata la controparte aziendale: si comprende facilmente come i principi partecipativi possano essere risultati nuovi e spesso dissonanti, sia per frange del sindacato esterne alla realtà aziendale sia, in qualche caso, all’interno di parti dell’azienda stessa (taluni manager e/o impiegati, ma anche operai). Le parole di una RSU aiutano a comprendere il senso dei percorsi di declinazione della partecipazione, a fronte della tradizione italiana:
D: C’è una minoranza, in azienda e fuori, una minoranza piccola, che pure vi accusa di essere aziendalisti, troppo vicini all’azienda: volevo un tuo parere su questo…
R: Io non credo che siamo… cioè, è vero che siamo aziendalisti, forse, ma cosa significa essere aziendalisti, non essere contro l’azienda? Io non voglio essere contro l’azienda, io voglio il bene della mia azienda: ma il bene, con la mia azienda, lo devo fare parlandoci. Cosa vuol dire essere aziendalisti? Per dire “loro sono i padroni, loro non ci danno…?” Di cosa ti lamenti qua dentro? Gli fai sciopero? Per cosa? Fai un danno a te! Io non sarei aziendalista se avessi dall’altra parte un’azienda che mi ostruisce, se avessi un Marchionne! Lì sarei «non» aziendalista…
A.C., operaia qualità, 47 anni, licenza media, RSU FIOM.
Il problema delle accuse di “aziendalismo” appare, nelle parole di questa sindacalista, un falso problema, posto che l’ispirazione proveniente dalla cogestione sembra procedere nella direzione di una visione collaborativa che, in questa forma, non è percepita dalle RSU come sminuita della sua forza ed efficacia. Per dirla in breve, un’azienda con cui si dialoga è anche un’azienda con cui si possono stabilire percorsi di collaborazione, senza che questo vada a detrimento degli obiettivi dei lavoratori, anzi, in buona misura rafforzandoli. Proprio questi obiettivi sembrano infatti essere condivisi e sposati da ambo le parti, pur nella fatica dei percorsi intermedi operati per raggiungere, di volta in volta, una tale condivisione.
Entro questo marchio, un ruolo di primo piano è rivestito dal sindacato, la FIOM, particolarmente attivo e forte nel distretto meccanico emiliano, in generale, e in Lamborghini, in particolare.[14] Tornando alla nostra ipotesi inziale, la traduzione partecipativa della cogestione di matrice VW evoca uno di quei modelli, originali e circostanziati entro siti specifici, che i molti rivoli del capitalismo internazionale sembrano generare, allorquando le multinazionali si innestano in territori entro cui agiscono variabili di diverso genere, dalla storia locale, al capitale sociale, alle forme organizzative storicamente sedimentate, sia sociali che lavorative: si tratta di forme sincretiche di un capitalismo globale ormai meno omogeneo nelle sue molte, diversificate dislocazioni [Didry, Selim et Alii 2004, Mollona 2009, Kasmir e Carbonella 2016]. A fianco a ciò, è noto come molte forze agiscano attualmente in direzione di una disaffezione globale verso il sindacato, sulla base della frammentazione crescente della classe lavoratrice e della distribuzione della manodopera entro catene globali di valore dislocate su scala mondiale [Herod 2001, 2018]; dall’altro lato però, come proprio Herod fa notare, queste crescenti dislocazioni aprono alla configurazione di nuove geografie, anche in merito alle forme di organizzazione e riconfigurazione della resistenza e della lotta della manodopera mondiale. A fronte di tutto questo i protagonisti della sperimentazione descritta aprono spunti di riflessione.
Non è facile stabilire, dal solo punto di vista antropologico, quali siano gli effetti reali della partecipazione in Lamborghini sulla vita lavorativa, sul complessivo clima aziendale, se non partendo dal dato basilare di una contrattazione di secondo livello particolarmente avanzata in termini di salari, benefici e tutele dei lavoratori [Russo et. Alii 2018], oltre che dall’attaccamento al lavoro e dalla soddisfazione manifestata a livello generale nelle interviste. Certo è che in Lamborghini sembra si sia realizzata, al meglio possibile, proprio quella mediazione tra fini individuali e collettivi, reputata da Durremberger e Riechart come il punto più contraddittorio dell’azione sindacale contemporanea [2010]: una partecipazione agli obiettivi aziendali, tradotta in minute forme di democrazia quotidiana, finalizzata ad un costante miglioramento delle condizioni di lavoro. Come dire che, sotto il vessillo della partecipazione, talune contraddizioni appaiono se non eliminate, quanto meno mitigate: ivi inclusa quella di produrre vetture destinate alle nicchie più ricche della popolazione mondiale, ma prodotte pur sempre entro un sistema di democrazia aziendale partecipato, costruito e condiviso dall’azienda e dai lavoratori.
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[1] Automobili Lamborghini produce due modelli di super-sportcar, Huracàn e Aventador, e dal 2018 un terzo modello SUV denominato Urus. Conta attualmente 1754 dipendenti (al dicembre 2018), con una percentuale di donne del 20 per cento. La produzione giornaliera attuale è di 10 Huracan, 5 Aventador e 26 Urus (Fonte: Automobili Lamborghini).
[2] Il diritto del lavoro italiano prevede una contrattazione di primo livello, nazionale e per categoria, ed una di secondo livello, che si articola a livello di ciascuna azienda.
[3] Doveroso ringraziare il direttore di stabilimento ing. Ranieri Niccoli, il direttore del personale dott. Umberto Tossini, il responsabile relazioni sindacali HR dott. Giuseppe Nardacchione, il coordinatore RSU FIOM dott. Alberto Cocchi. Ringrazio altresì le RSU per la costante collaborazione, i lavoratori e le lavoratrici che mi hanno dedicato tempo nelle interviste. Ringrazio anche Klaus Mittermaier, presidente del Consiglio di Fabbrica Audi-Ingolstadt, Ralf Mattes, responsabile relazioni esterne di Audi-Ingolstadt e Sebastian Stichweh, segretario generale dell’European and Global Group Works Council del Gruppo VW.
[4] Nell’autunno del 2015 la VW viene accusata dalla Environmental Protection Agency (EPA), l’agenzia federale americana che certifica i motori delle auto, di aver truccato il software dei motori diesel, in modo da diminuire drasticamente il livello delle emissioni in sede di omologazione.
[5] Dal 2016 al 2018 Lamborghini ha congegnato un nuovo terzo nodello, il SUV Urus, presentato alla fine del 2017, costruito il nuovo reparto per l’assemblaggio, mentre sta costruendo il reparto verniciatura, attualmente in outsourcing. Nel 2016 gli occupati erano 1325, nel 2017 erano 1494 e nel 2018 divengono 1754 (Fonte: Automobili Lamborghini).
[6] Le CTB (Commissioni Tecniche Bilaterali) in Automobili Lamborghini sono commissioni paritetiche azienda/sindacato, composte da tre membri aziendali e tre sindacali, con potere consultivo ma non deliberativo; esse sono: Tempi, Metodi e Organizzazione del Lavoro; Formazione e Inquadramento; Premio di Risultato; Salute e Sicurezza. Le CTB sono previste anche in aziende italiane (inclusa l’automotive), ma il loro funzionamento in Lamborghini è improntato ai principi della partecipazione.
[7] Così si esprime la guida internazionale Co-Determination in Germany, che a sua volta cita come fonte il Federal Ministry for Employment & Social Order:“Mitbestimmung. Unternehmensmitbestim- mung & Betriebsmitbestimmung”, Jan 1995. Pages 5 – 8. Translation).
[8] Nell’articolo 46, la Costituzione Italiana così si esprime: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.
[9] Il Gruppo VW detiene 12 marchi di autoveicoli, con 123 stabilimenti produttivi in 20 paesi europei e 11 paesi distribuiti tra le Americhe, l’Asia e l’Africa; i dipendenti sono più di 640.000.
[10] La Charta è composta di sei pagine di testo, più un allegato di due. La traduzione nelle lingue dei vari siti industriali è curata dal Gruppo VW.
[11] Fonte: FIOM, Automobili Lamborghini, settembre 2018.
[12] Al 2017, la provincia più rappresentata è Bologna, con quasi 60 aziende a controllo tedesco, seguita da Modena (25), Parma e Reggio Emilia a pari merito (14). Le regioni tedesche di provenienza delle attività partecipate in Emilia-Romagna sono invece il Nordreno-Vestfalia (40), il Baden-Württemberg (32) e la Baviera (22) [Camera di Commercio Italo-Germanica, 2017].
[13] Pur negli intenti prevalentemente celebrativi del mito Lamborghini, la letteratura locale consente di vedere tra le righe come l’azienda paternalistica e padronale fondata da Ferruccio passa di mano già nel 1972, anche a seguito di un mancato ammodernamento, nel confronto con la concorrenza di mercato e le rivendicazioni sindacali della fine degli anni 60: cfr. Borzicchi 2001, Lamborghini 2006.
[14] Alle elezioni 2018, nelle aziende del distretto territoriale bolognese che applicano un contratto collettivo nazionale del lavoro (CCNL), sottoscritto da Confindustria, la FIOM ha preso 10.686 voti, eleggendo 320 rappresentanti sindacali, a fronte di 32 della FIM-CISL e di 11 della UILM, pari al 77 per cento del totale. Fonte: FIOM Bologna e Direzione Territoriale del Lavoro.