Grazie ad Aldo Amoretti, pubblichiamo di seguito la relazione introduttiva di Franco Martini al seminario “Co-determinazione 4.0 – Governance e Contrattazione d’anticipo nella digitalizzazione”, organizzato da CGIL e tenutosi a Roma il 22 marzo 2018.
Con questa iniziativa vorremmo dare continuità al lavoro avviato ormai da molti mesi, dalla Segreteria Nazionale e dall’Ufficio Progetto Lavoro 4.0, sui temi dell’innovazione dell’economia, legati all’introduzione della digitalizzazione e dell’automazione nei processi produttivi. In particolare, vorremmo fare un passo in avanti: se in tutti questi mesi abbiamo analizzato e approfondito la questione soprattutto dal punto di vista teorico, a partire da oggi, vorremmo provare a gettare le basi per individuare e costruire gradualmente le connessioni con la nostra attività concreta, con la nostra funzione, che è quella di tutela e rappresentanza del lavoro, lavoro profondamente investito dalle trasformazioni sollecitate da 4.0, farlo, innanzitutto, attraverso l’esercizio della contrattazione.
Ciò, in particolare, a fronte di nuovi elementi di contesto che, rispetto a quando è iniziata questa nostra “marcia” nel mondo 4.0, si sono determinati: da un lato, l’andamento dell’economia, con i segnali di ripresa, che, in una lettura forse un po’ troppo ottimistica, fanno parlare di una uscita decisa dalla crisi e che, in ogni caso, impongono una attenta riflessione sulla qualità di questa crescita; dall’altro, il confronto tra le parti sociali sul tema delle relazioni industriali, che si è arricchito recentemente dell’importante intesa con Confindustria, i cui contenuti ci parlano di un atto tutt’altro che formale, un tentativo di stare dentro le sfide poste in essere dalle stesse trasformazioni 4.0 Su quale sia la portata del fenomeno e delle trasformazioni con le quali saremo chiamati a misurarci è apparso chiaro nel lavoro fatto in questi mesi, vale, quindi, riepilogarle solo per estrema sintesi.
Abbiamo visto che gli effetti dei processi legati alla digitalizzazione e all’automazione investiranno tutti i domini dell’economia, dalla produzione al consumo, dai trasporti alla comunicazione. Come sempre in questi casi, ma ancor più rispetto alle precedenti rivoluzioni industriali, dentro tali processi conviveranno spinte opposte, quelle legate alle grandi opportunità, riferite alla creazione di nuova e maggiore ricchezza ed altrettante inquietudini, dovute alla possibile distruzione di posti di lavoro o interi settori industriali.
Abbiamo visto che la destabilizzazione dell’occupazione, soprattutto quella a basso contenuto professionale, potrà essere compensata da nuova occupazione, legata alle nuove attività, sicuramente lavoro a più alta intensità di conoscenza, ma nessun processo potrà dirsi automatico, nessun nuovo equilibrio potrà raggiungere un livello di sostenibilità, non solo economica, ma anche e innanzitutto sociale, senza una azione regolatrice degli attori, senza un governo dei processi.
Per quanto ci riguarda, abbiamo capito che questo sindacato, quello di oggi, di come siamo fatti, potrebbe non farcela, non essere all’altezza, senza stare dentro quella evolution road, che ridisegnerà perimetri economici e produttivi, rendendoli sempre più flessibili, determinando conseguenze sempre più imprevedibili sui tradizionali assetti produttivi, del lavoro e della stessa società. Potremmo dirla in modo ancora più brutale: senza una nuova cultura delle relazioni industriali e senza una nuova qualità della contrattazione, è certo che il nostro ruolo sarà subalterno e che le lavoratrici ed i lavoratori vivranno passivamente i cambiamenti del e sul lavoro. Una nuova cultura delle relazioni industriali.
E’ utile sottolineare che tutta la discussione che in questi due anni si è svolta sul documento unitario “Per un moderno sistema di relazioni industriali”, ha sostanzialmente ignorato il terzo pilastro su cui poggia quella proposta, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. Occorre, però, dire che senza l’assunzione consapevole da parte di tutti i nostri gruppi dirigenti, a tutti i livelli, che su quel terreno si giocherà gran parte dell’innovazione delle relazioni, noi attesteremo la nostra organizzazione alla difesa di quello che già siamo stati, rinunciando ad essere quello di cui vi è più bisogno per stare dentro, in modo proattivo, al governo dei processi di cambiamento. E rimanere quello che già siamo stati renderebbe assolutamente inutile continuare a discutere di 4.0 La partecipazione non è una concessione alla cultura degli altri, ma è patrimonio della stessa nostra storia.
La partecipazione non è alternativa al conflitto, ma terreno più avanzato, sul quale non ci si limita a misurare la forza dei muscoli, ma quella della responsabilizzazione delle persone che lavorano, cioè, quella delle idee. Abbiamo un precedente storico nel quale il sindacato confederale italiano aveva colto l’importanza dello stare dentro la discussione sulle scelte aziendali, cioè, la prima parte dei Ccnl, che prevedeva diritti di informazione. Esperienze lontane da quelle che discutiamo in questi anni (siamo negli anni ‘70/’80), ma già allora avevamo intuito che il ruolo del sindacato non poteva esaurirsi solo nel conflitto rivendicativo, ma doveva cercare di acquisire una responsabilità nel confronto in merito alle scelte produttive delle imprese.
Nel corso dei decenni successivi i sistemi di relazioni industriali in Europa hanno continuato la loro evoluzione, mentre nel nostro Paese siamo rimasti indietro. Se oggi parliamo di co-determinazione 4.0 è perché quel salto tecnologico, che produce cambiamenti non solo nell’organizzazione del lavoro, ma nella governance complessiva delle imprese, necessita di un maggior coinvolgimento dei lavoratori, come portatori di intelligenza, conoscenza e capacità strategica, nelle dinamiche e nei processi di innovazione, sistemi organizzativi meno gerarchici, interazione fra le persone. Ed è, pertanto evidente, che prima ancora di una questione di norme e procedure, la co-determinazione presuppone proprio un salto culturale, una nuova cultura delle relazioni industriali della quale sia parte integrante una nuova cultura dell’impresa, dove l’impresa non appaia più per il lavoratore, solo luogo di subordinazione e di passività, ma luogo di una possibile autorealizzazione della persona.
Ma è proprio la profondità delle trasformazioni, che non investono solo il lavoro, a rendere necessario un cambio di paradigma nei sistemi di relazione tra le parti sociali. Dall’algoritmo non ci si difende solo negoziandone le conseguenze, ma assumendo quote di responsabilità nelle decisioni. Naturalmente, oltre ai nostri ritardi, dobbiamo scontare e superare limiti propri dell’imprenditoria italiana, marcatamente familista e paternalista, oltre a ritardi normativi. Ma l’intesa con Confindustria apre una porta che sarebbe davvero grave non spalancare, per attraversare quella soglia, che ci ha visti sempre particolarmente restii nel cimentarci su questo terreno.
Come è noto, la distanza tra il nostro Paese e l’Europa non è piccola. Dalla comparazione fra i diversi sistemi emerge quanto il nostro sia caratterizzato dall’assenza di norme sulla partecipazione dei lavoratori, mentre il resto dell’Europa, in particolare Germania e Nord Europa, godono di ampi sostegni normativi, frutto di storie e culture diverse. Ma da quell’Europa così più avanzata vengono le spinte per una possibile e necessaria evoluzione del nostro quadro. L’art.27 della Carta dei Diritti Fondamentali di Nizza, le numerose direttive su informazione e consultazione anche a livello sovranazionale e alla partecipazione negli organismi societari. Ovviamente, noi non partiamo da zero, l’esperienza del nostro Paese, già caratterizzata dalla prima parte dei contratti, si è arricchita di altre esperienze , come le commissioni paritetiche, la bilateralità, alcune forme di partecipazione diretta, esperienze di governance, soprattutto con i comitati di vigilanza. Si tratta di fare un passo in avanti, deciso, per acquisire una legislazione che renda strutturale la partecipazione ed in questo senso, per quanto non sarà un Parlamento a noi molto favorevole, dovremo riprendere i progetti di legge depositati in Parlamento, da Nerozzi, Treu, Sacconi a Zoppoli-Rusciano.
Se riflettiamo sugli scenari che potrebbero determinarsi, da un lato, con le norme sulla partecipazione, che risponderebbero all’applicazione dell’art.46 della Costituzione, dall’altra, quelle sulla certificazione della rappresentatività dei soggetti negoziali, che contribuirebbero all’applicazione dell’art.39, incardineremmo il sistema di relazioni industriali nel nostro Paese in un sistema di assi cartesiani notevolmente più avanzato della giungla in cui siamo.
Può apparire fantascienza, ma si tratta di passaggi indispensabili se vogliamo che i processi di cambiamento 4.0 siano sostenuti da un moderno sistema di relazioni, quale leva per favorire le scelte virtuose delle imprese. Dobbiamo non dimenticare mai, che il panorama delle imprese italiane, come ci ha ricordato durante tutto il lungo confronto il Presidente di Confindustria, è caratterizzato da un 20% di imprese che sono ben posizionate dentro l’eccellenza, il 60%, che si limita al galleggiamento, alla semplice sostituzione tecnologica, senza introdurre alcune innovazioni, un altro 20% che è relegato alla pura sopravvivenza, con tutte le politiche di bassa qualità che conosciamo bene. Per portare quel 60% nella fascia superiore, necessitano “coinvolgimento e partecipazione” e “una diversa relazione tra impresa e lavoratori”, così recita l’accordo con Confindustria, che continua “Questi processi…vanno sostenuti con un sistema di relazioni industriali… che incoraggi…quei processi di cambiamento culturale, capaci di accrescere nelle imprese le forme e gli strumenti della partecipazione organizzativa” e “con particolare riferimento ai processi 4.0, si configurano le condizioni ideali per percorsi di sperimentazione”.
Come sarebbe possibile non cogliere in questa evoluzione della posizione Confindustriale una grande opportunità per realizzare quel passaggio dall’obbedienza passiva e dipendente alla responsabilità riflessiva, di cui parlava il filosofo Thomas Kuhn e che portava il Prof. Renato Di Nubila a chiedere “se alle parti sociali interessasse oggi più un dipendente passivamente remissivo, o una persona con forte senso di appartenenza, capace di assumersi delle responsabilità e di concorrere a conseguire risultati”.
Questa è la nuova cultura delle relazioni sindacali, quella che nelle nostre pratiche non è ancora sviluppata e che, con ogni probabilità, non è ancora percepita come un terreno più avanzato per essere attori del cambiamento. La lunga stagione di crisi e le scelte difensive alle quali ci ha costretti, non ha certo favorito una evoluzione culturale del sindacato in questa direzione, come pure molte scelte politiche ed istituzionali che hanno scaricato sui corpi intermedi la crisi della rappresentanza e l’assenza di ricette efficaci. Ma di fronte al futuro 4.0 non vi sono alternative all’alzare il profilo della nostra azione, scegliendo di sperimentare forme, pratiche, modelli di coinvolgimento del lavoro nella governance dell’impresa.
Come si può ben intuire, si tratta di qualcosa che –nella esperienza italiana- rende non del tutto nitidi i confini tra contrattazione e partecipazione. Dai diritti di informazione, che erano appunto diritti contrattuali, ai premi di partecipazione, che sono il risultato degli accordi di secondo livello che godono della detassazione, abbiamo sempre considerato il coinvolgimento dei lavoratori alla gestione dell’impresa, come un diritto, peraltro di ispirazione costituzionale, sul quale la contrattazione ha cercato di esercitare una funzione. E’ del tutto evidente che dobbiamo elaborare una via italiana alla partecipazione, non potendo trasportare automaticamente le esperienze del Nord Europa in casa nostra, soprattutto per le profonde differenze tra i sistemi di imprese. Ma il documento unitario del 2016 individua i tre livelli sui quali immaginare il campo della nostra sperimentazione, la Governance, come partecipazione strategica, quella diretta, la partecipazione organizzativa e la partecipazione economica/finanziaria.
Ma acquisire la dimensione culturale della partecipazione, nelle diverse forme che essa può assumere, significa essere consapevoli che dobbiamo porci il tema della qualità della contrattazione e se l’effetto combinato di partecipazione e contrattazione dev’essere la capacità di intervenire sui cambiamenti, la contrattazione, oltre ad avere un forte carattere inclusivo, deve essere sempre più di anticipo, cioè, deve stare davanti ai cambiamenti, pena il rincorrerne solamente gli effetti. Di contrattazione d’anticipo già avevamo iniziato a parlarne anni fa, soprattutto in alcuni settori come l’edilizia, dove appariva evidente che i margini di intervento sulle condizioni di tutela del lavoro stavano quasi tutti prima dell’apertura concreta dei lavori ed in ogni caso, si trattava essenzialmente della tradizionale contrattazione applicata nella fase di progettazione del cantiere (basti pensare ai temi della sicurezza) . Oggi, la contrattazione d’anticipo nei processi 4.0 presuppone nuova strategia progettuale ed è la ragione per la quale viviamo una fase dello sviluppo nella quale le connessioni con i problemi della formazione e della conoscenza assumono un ruolo strategico come mai, forse, è stato nei decenni che abbiamo alle spalle.
E non vi è tempo da perdere, perché tutto ciò è caratterizzato da una velocità dei cambiamenti davvero impressionante. Mentre noi siamo qui a discutere il mondo non è fermo, anche nel nostro Paese. Sulle problematiche connesse al lavoro che cambia molte imprese hanno iniziato a cimentarsi, cominciando a dare risposte, ed il più delle volte lo fanno senza di noi. Ed il tratto dominante della sfida è proprio la risposta da dare al disallineamento tra domanda e offerta nel lavoro che cambia. La contrattazione d’anticipo deve saper intervenire su quel tratto dominante, che si chiama innovazione, senza la quale il saldo sarà decisamente negativo, una contrattazione che dovrà navigare spesso in un mare sconosciuto e difficoltà inedite. Proviamo a delineare le zone di navigazione sulla base delle problematiche con le quali dovremo sempre più misurarci. Ad esempio, se è vero che l’intelligenza artificiale non riduce il lavoro, anzi ne crea, è anche vero che alcune tecnologie eliminano posti in fretta e creano nuova occupazione più lentamente.
Come è stato dimostrato da una recente inchiesta, che ha esaminato la situazione di varie imprese (Expert System di Modena, Mipu, Vis Lab di Parma, Image Lab dell’Università di Modena), è confermato che i lavori più stabili saranno collegati a più elevate capacità progettuali e ad uscire dal mercato saranno i professionisti che non impareranno a comprendere le tecnologie connesse all’intelligenza artificiale. Secondo l’OCSE solo un 10% (e non il 47% di altre ricerche), dei posti di lavoro sparirà, ma un 30/40% cambierà. L’intelligenza delle macchine sarà definita dalla intelligenza delle persone che le progettano e le producono. E le usano. Questo modificherà il lavoro, dalla gestione aziendale alla fabbrica, dalla sanità alla scuola.
Se il processo appare più complesso di quello che sembra, ciò deriva dal fatto che per usare bene il digitale occorre una cultura nuova. I lavori abilitati dal digitale richiedono capacità diverse. Alcune sono tecniche come la programmazione. Altre non sono tecniche: la quantità di informazione disponibile richiede doti di pianificazione, rapidità nelle risposte, cooperazione tra le squadre di lavoro e grande leadership. Le tecnologie stanno ridisegnando l’organizzazione delle imprese, rendendo più importante la capacità di elaborare i dati, l’indipendenza di giudizio, l’autonomia gestionale, l’orientamento alla soluzione dei problemi e alla comunicazione. Secondo le stime dell’OCSE, meno del 40% di chi usa software al lavoro ogni giorno ha le skill che servono davvero.
Sempre secondo l’inchiesta già citata, non basta conoscere bene le piattaforme ma estrarne tutto il valore possibile. Le tecnologie cambiano a grande velocità ed il mestiere di chi si limita a usarle è destinato a seguire la loro fatale obsolescenza. In realtà alcuni mestieri sono legati a cicli brevi di certe tecnologie e altri sono destinati a più lungo successo, ma molti non sono ancora noti. La cultura adatta al lavoro del futuro scaturisce dall’incontro di fenomeni che cambiano in modo accelerato e valori che durano nel tempo.
Ecco perché, per adattare il modo di pensare alla grande trasformazione, non occorre tanto “flessibilità” quanto “strategia” progettuale. E’ il caso dell’azienda NanaBianca. Che cos’è?! In parte è un acceleratore che aiuta a crescere startup nelle quali ha una piccola parte. In parte fa progetti col suo Startup Studio: concepisce i business, trova i team, crea le imprese per realizzarli e mantiene una quota elevata. In tutte queste attività il punto chiave è il progetto. Occorre trovare tutti gli strumenti che servono per realizzarlo. Compresa la tecnologia. Abbiamo, poi, aziende nelle quali il coinvolgimento dei collaboratori nel progetto, finalizzato al miglioramento della produttività ed alla creazione di prodotti straordinari, ha determinato una crescita del valore aggiunto e dell’occupazione. E’ il caso della STM Agrate. Sensoristica, dove nasce uno spazio interaziendale che collega le diverse fabbriche, i fornitori, i clienti, in pratica, uno spazio digitale. Qui non servono gli operai di dieci anni fa, ma ingegneri gestionali, data scientist, informatici, matematici, servono specializzazioni e flessibilità. E serve un ampia cultura di base per intervenire sulle mutevoli condizioni di lavoro. Oppure, la Luxottica. Multinazionale 9 miliardi di fatturato, 80mila dipendenti, 10mila in Italia, 93 milioni di montature all’anno. Luxottica è verticalmente integrata per non perdere niente del valore aggiunto (e per aggiungere qualità) del percorso di coinvolgimento in tutte le fasi delle lavorazioni. Qui quale formazione serve? Visione internazionale, ingegneria gestionale e meccanica , programmazione di robot, design e saper fare squadra, usare il pensiero laterale, comunicare. L’automazione di piccole serie chiede una organizzazione votata a fare scala e personalizzazione, flessibilità e velocità. Qui si fa valore aggiunto in piccole nicchie!
Come appare del tutto evidente, Le aziende innovative tendono sempre meno a comprare il tempo delle persone e sempre più a comprare la capacità delle persone di realizzare progetti.
E questo ci induce ad approfondire una riflessione sull’economia delle piattaforme. La piattaforma è una macchina, qualcuno la costruisce e qualcuno la usa, essere da una parte o dall’altra dello schermo divide due mondi del lavoro. Sono destini che si allontanano sempre di più, oppure sono solo diverse dimensioni occupazionali le cui porte si aprono a tutti coloro capaci di varcarle? La polarizzazione temuta dall’OCSE è tutta qui: tra aziende e lavoratori che puntano sulla creatività e l’autonomia dei talenti che lavorano in squadra e le aziende o i lavoratori che preferiscono difendere le vecchie gerarchie. E’ il caso di Facebook Italia. Oggi non si paga il lavoratore per il tempo che dedica all’azienda, ma per la sua capacità di delineare e realizzare progetti. Tutto questo funziona da una parte dello schermo. E’ possibile ragionare in questo modo anche quando si pensa alle persone che fanno i lavoretti sulle piattaforme della Gig economy? Uber, Foodora, Mturk, Petme, Le Cicogne, Deliveroo, non sono tutte uguali. La loro storia è destinata a differenziarsi anche per l’atteggiamento che coltivano nei confronti di chi offre i lavoretti. La società di consulenza McKinsey sceglie di considerarli parte degli “indipendenti”. Questo lavoro indipendente riguarda molte categorie diverse: chi offre servizi, chi vende merci su piattaforme, chi affitta beni patrimoniali. Sempre secondo McKinsey le piattaforme digitali stanno trasformando questi lavori indipendenti rendendo molto più efficiente l’incontro domanda offerta. Cresce il numero di questi occupati “indipendenti”. Le Cicogne inquadra le baby sitter nel lavoro domestico garantendo e gestendo i rapporti con l’Inps, il pagamento, l’invio del Cud. In questo c’è una correlazione tra qualità del servizio e trattamento di chi lavora con risultato apprezzabile per tutti i soggetti coinvolti. Non è ancora così per le altre piattaforme.
In ogni caso, il tratto prevalente è la tendenza alla polarizzazione: da una parte, persone con elevate conoscenze e ottimi risultati economici; dall’altra parte, lavoratori con capacità e reddito limitati. La trasformazione tende a ricollocare il lavoro dalle attività finalizzate alla produzione di beni industriali, che richiedevano soprattutto lavoratori di medie competenze, verso servizi che polarizzano la domanda di lavoro, quindi, verso persone con elevate conoscenze, col rischio di emarginazione dei lavoratori con capacità molto limitate.
Per questo serve una formazione che specializzi e nello stesso tempo apra la mente alla consapevolezza del cambiamento. Ad esempio, la H-Farm di Treviso, da acceleratore di startup, sta diventando una struttura che offre formazione alle persone e servizi per la trasformazione digitale delle aziende, mettendo in relazione genitori, studenti, docenti, una tecnologia “mobile first” per creare percorsi formativi “su misura” per gli studenti, anche studiando nuove materie come “innovazione”, ”materiali”, ”digital economy”, ”modelli di business”. In questo quadro, appare evidente che l’ambito nel quale si progettano e realizzano le soluzioni più concrete è quello territoriale. Con la partecipazione di imprese, università, enti locali. Se guardiamo ai casi delle imprese Dallara, Ferrari, Lamborghini, Maserati, Ducati, Vislab, abbiamo chiaro quanto il territorio abbia valore. La missione di un territorio è definita dai suoi punti di forza e dalla sua capacità di connetterli alle filiere produttive che si delineano per il futuro. I luoghi dello studio e i laboratori sono sia nelle università che nelle aziende.
Quelli citati, ed altri ancora, sono casi che confermano quanto, per affrontare il futuro, occorre saper cambiare, mantenendo però una direzione di fondo: ci si prepara ibridando i saperi e assorbendo a fondo le materie fondamentali. Il lavoro del futuro sembra fatto per essere svolto da persone che abbiano, insieme, qualità umanistiche e tecniche e si scopre che anche coloro che cercano quelle persone, le direzioni delle risorse umane, devono coltivare lo stesso mix, inedito, di competenze. (Federico Butera) – Le nuove tecnologie non avranno effetti deterministici poiché esse sconvolgono sì l’esistente, ma è solo la progettazione quella che disegnerà le nuove organizzazioni, le nuove imprese, le nuove società, le nuove città e soprattutto la qualità e quantità del lavoro…valorizzando non solo gli investimenti in tecnologie ma tutte e tre le risorse chiave della rivoluzione industria 4.0: tecnologie, organizzazione, lavoro.
Se questo è il mare sul quale dovrà navigare la nostra contrattazione, provando a stare davanti alla corrente e se la contrattazione d’anticipo dovrà essere sostenuta da un convinto ingresso della nostra organizzazione nella sfera della partecipazione, per codeterminare gli indirizzi e gli effetti dei cambiamenti 4.0, vi sarà chiaro perché, fin dai prossimi giorni, la segreteria svilupperà un progetto nazionale sul tema della partecipazione.
Un progetto, rivolto a tutte le nostre strutture, a partire dalle categorie, che prenderà le mosse con un primo investimento di natura formativa, per costruire la necessaria forma mentis del nostro gruppo dirigente. Poi, un forte investimento nella sperimentazione. Guardando alle possibili linee di lavoro sindacale, pur consapevoli che sul piano culturale la CGIL ha guardato con maggiore attenzione e convinzione ai temi della partecipazione strategica rispetto agli altri due, occorre anche chiedersi se i temi della partecipazione diretta/organizzativa, che appartengono a culture diverse da quella CGIL (toyotismo/qualità totale/cultura manageriale), che si sono affermati in diverse esperienze e modelli, spesso senza di noi o contro di noi, non rappresentino tuttavia la spia di un cambiamento in atto almeno per una parte del sistema industriale e non delineino esperienze sul campo che offrono argomenti di riflessione e strumenti utili per guardare al lavoro del futuro.
Questo non a discapito delle altre forme di partecipazione a partire da quelle strategiche fino a quelle economiche. Anzi una possibile linea di lavoro potrebbe essere quella che i diversi modelli possono essere ibridati come conseguenza della riflessione in atto sul lavoro del futuro. (Mimmo Carrieri) Una parte minoritaria ma strategicamente importante delle aziende più orientata all’innovazione, necessita di un ruolo crescente dei lavoratori nel processo produttivo, con l’obiettivo di migliorare i risultati e la produttività. Dobbiamo avere consapevolezza della necessità di compiere questo passo, perche’, senza di noi, nella varietà e nelle tecniche di partecipazione diretta adottati, una parte di essi ha caratteri individuali e deboli, mantenendo un impianto organizzativo in prevalenza verticale discendente, condizione opposta a quella che può rendere possibile il “riconoscimento” del lavoratore nel raggiungimento degli obiettivi.
Esiste uno spazio per arricchire il coinvolgimento in senso collettivo e più forte, rendendo più strutturata la partecipazione diretta e nello stesso tempo aumentando le opportunità per i lavoratori, di miglioramento della qualità del lavoro. Lo stato dell’arte vede una crescente fioritura di esperienze di partecipazione organizzativa (forti e deboli), mentre sono più sporadiche quelle più vicine alla nostra cultura di partecipazione strategica (Lamborghini, Ducati). Non va abbandonato, però, l’obiettivo di estendere le forme di partecipazione più alta, ma appare utile ragionare attorno a degli equivalenti che rendano la governance più aperta e democratica, che potremmo definire “diritti di codeterminazione diffusa”.
Partire dall’esistente per estenderlo, utilizzare le buone prassi di partecipazione diretta come leva per allargare il ricorso anche alla partecipazione intorno alle scelte strategiche (Mimmo Carrieri) Governance aperta può volere dire aprirsi anche in questa che è la fase più importante e delicata per il futuro di una azienda e del lavoro all’informazione, alla consultazione, al coinvolgimento sino alla codecisione e codeterminazione.
Dovrà esserci uno spazio diretto per i lavoratori. Si dovrà pensare a sedi che coinvolgano la rappresentanza di chi lavora. Nelle diverse fasi, modelli, esperienze occorrerà fare esprimere l’elemento tecnico del lavoro e quello culturale del lavoro del futuro. Per questo è importante utilizzare la contrattazione ai diversi livelli. Abbiamo archiviato a valere dal 2015: 1.600 accordi aziendali, 3.000 documenti contrattuali complessivi, 150 accordi territoriali. Una mole di documenti con una elevata capacità di produrre dati che vanno analizzati per migliorare la capacità di intervento nelle fasi di progettazione a livello aziendale e per la stessa progettazione sindacale. Come abbiamo vista la progettazione organizzativa legata alle tecnologie può accentuare la polarizzazione del mondo del lavoro o iniziare a contrastarla.
Cosa serve? Su quali materie fare esprimere i diritti di codeterminazione diffusi? Se guardiamo Amazon, possiamo leggerli dal comunicato del coordinamento del 18 febbraio a cui hanno partecipato oltre 50 tra rappresentanti sindacali e dirigenti sindacali . Orari, anche per i somministrati che sono 4 volte gli addetti, riconoscimenti professionali, turni, diritti occupazionali, accessi al lavoro, salute e sicurezza, diritti sindacali. Abbiamo anche chiesto sedi di partecipazione su salute e sicurezza. Se riusciremo a consolidare queste materie proveremo a estendere la contrattazione di secondo livello. Ma anche in quel contesto ad alta automazione potremo provare a vedere gli aspetti tecnici e culturali del lavoro, a ragionare sulle competenze tecniche e le nuove skill del lavoro del futuro (analisi dei dati, lavorare in gruppo, problem solving). Questo dovremo essere in grado di farlo ovunque ci siano “piattaforme” che gestiscono il rapporto domanda-offerta intervenendo sulle condizioni di lavoro a partire dagli orari. Ma l’elemento strategico della tecnica e della cultura del lavoro del futuro richiede anche un rapporto partecipazione/territorio e partecipazione/formazione per vedere le esperienze più importanti che si stanno facendo a livello territoriale anche sulla formazione, capendo come queste possono influenzare le sedi nelle quali siamo presenti , formazione continua, apprendistato, alternanza scuola lavoro.
Ascolteremo adesso il contributo di autorevoli rappresentanti del mondo accademico ed istituzionale; ascolteremo le testimonianze delle strutture che hanno realizzato alcune esperienze concrete in questo campo. Tutto questo ci è utile, per mettere a punto nei prossimi giorni una vera e propria piattaforma sui temi della partecipazione e della contrattazione d’anticipo, che sia in grado di far compiere quel salto di qualità richiesto alla nostra organizzazione, per continuare ad essere sempre più soggetto propulsivo e proattivo del cambiamento.