«Crediamo nel libero mercato come il mezzo migliore per produrre lavoro, un’economia forte e sostenibile, innovazioni, un ambiente salubre, opportunità economiche per tutti.[…] Le nostre aziende hanno ciascuna il proprio scopo, noi condividiamo il nostro impegno verso tutti i nostri stakeholder». Così il documento della Business Roundtable del 19 agosto scorso. E così continua: «Siamo impegnati a fornire beni di valore ai nostri clienti, a investire nei nostri dipendenti, a trattare correttamente con i nostri fornitori, a sostenere le comunità in cui lavoriamo, a produrre valore di lungo termine per i nostri azionisti». Seguono le firme autografe degli oltre 180 ceo, tra cui quelli di Apple, Pepsi, Walmart (Business Roundtable).
Propositi di sconcertante ovvietà: chi mai, oggi o in passato, esprimerebbe il proposito di fornire prodotti scadenti ai propri clienti, di sfruttare i propri dipendenti e di essere scorretto con i propri fornitori? «Lo shareholder value non è più tutto», titola il New York Times: solo che «tutto» non lo è mai stata. E dovrebbe saperlo: il paper di Milton Friedman del 1970, atto di nascita dello shareholder value è uscito nel 1970 sul magazine del Nyt. Vi si legge sì che la responsabilità sociale dell’impresa è aumentare i profitti, ma che i ceo devono farlo in conformità con le regole base della società, sia quelle scritte in legge sia quelle rispondenti a principi etici: come hanno fatto le grandi aziende contro le discriminazioni di genere, fede, scelte di vita personali.
Altra cosa è invece perseguire scopi necessariamente politici – diminuire l’inflazione, istruire ai disoccupati, ridurre l’inquinamento planetario: se lo fanno, è come se mettessero un’imposta su azionisti e su consumatori, cosa che, in Paese democratico, solo i rappresentanti eletti dal popolo hanno il potere di fare. «La dottrina della responsabilità sociale – scrive Friedman – comporta che siano i meccanismi politici, non quelli di mercato, a determinare l’allocazione di risorse scarse per scopi alternativi»: come avviene in un’economia socialista.
«Nel clima politico di diffusa ostilità al capitalismo, al profitto, alle aziende senza cuore, la responsabilità sociale può essere un modo per guadagnare simpatie come sottoprodotto di iniziative che sarebbero interamente giustificate dall’interesse dell’azienda». Lo scriveva Friedman 50 anni fa: figurarsi oggi, con le Elizabeth Warren e i Bernie Sanders, anche questa volta un ipocrita specchietto per le allodole? Per Larry Summers, è «la retorica per evitare una necessaria riforma fiscale e normativa». Per il nostro Luigi Zingales, è fumo negli occhi: il problema non sarebbe compiacere gli shareholder, ma al contrario non dar loro abbastanza potere su questioni di rilevanza sociale, come la vendita delle armi nei supermarket, o la riduzione delle emissioni di CO2.
Le norme di corporate governance devono conciliare le ragioni di efficienza – la maggioranza decide – con quelle di giustizia – evitare che gli azionisti dominanti godano del beneficio privato del controllo a scapito di quelli di minoranza. E quindi prevedono il diritto delle minoranze di essere rappresentate in consiglio da amministratori indipendenti (in Italia vale solo per le aziende quotate). In Germania, per le aziende con più di 2mila dipendenti, con la Mitbestimmung i sindacati nominano un certo numero di amministratori (che non sempre ha dato i risultati attesi). Si sta generalizzando l’obbligo del “say on pay”, rendere pubblico il rapporto di guadagno annuo tra posizioni apicali e media aziendale, o addirittura di sottoporre i piani di incentivo all’approvazione degli azionisti. Quanto alla convenienza di investire nei propri dipendenti, e stabilire con essi un rapporto di fiducia, da decenni se ne scrive e se ne parla: insegnare alle altre aziende come farlo è diventato esso stesso un’impresa.
In realtà per comprendere sia il documento della Business Roundtable, sia le critiche con cui è stato accolto, bisogna contestualizzarli nel passaggio dal fordismo all’economia della conoscenza, la faticosa, a volte conflittuale trasformazione storica delle società avanzate. Come scrivono Torben Iversen e David Soskice (Democracy and Prosperity: Reinventing Capitalism through a Turbulent Century), rispetto al mondo uscito dalla seconda guerra mondiale, è stato un cambiamento radicale, sociale, educativo, economico, organizzativo, politico: il ruolo attuale delle donne, inimmaginabile in qualunque precedente periodo storico; più della metà dei giovani passa attraverso una qualche forma di educazione; le città di successo invertono il processo di deurbanizzazione e diventano poli di attrazione per aziende innovative.
Aumentano anche le diseguaglianze, un’inversione rispetto ai decenni postbellici. Nel fordismo, ad assicurare il flusso della produzione erano lavoratori con basso livello di istruzione, e questo rendeva imprenditori e lavoratori esperti attenti alle richieste che venivano dal basso, sia quanto a trattamento economico, sia quanto a modalità di assunzione e di licenziamento. Invece l’economia della conoscenza è il risultato delle scelte dei giovani su formazione, localizzazione, carriera, e delle corrispondenti scelte delle imprese basate sulla conoscenza. Come la classe media del fordismo, i proletari poco qualificati, era ostile ai poveri, così la nuova classe media emergente è indifferente alle condizioni della vecchia classe media declinante. E sono i suoi interessi economici quelli che le politiche economiche dei governi mirano a soddisfare.
La diseguaglianza è aumentata, ma il gruppo con reddito mediano ha tenuto molto bene il passo con la crescita generale. Per l’esito delle votazioni, decisiva è la classe media: e a quella non interessa tanto la diseguaglianza in sé, quanto che il proprio reddito cresca con l’economia, e che l’offerta di formazione garantisca lo stesso per i propri figli. I guadagni sono concentrati al vertice della piramide, ma la classe media ne trae vantaggio: negli Usa, il primo 10% nella scala dei guadagni paga il 70% delle tasse federali, il primo 1% circa il 40 per cento. Quindi è prevedibile che l’economia della conoscenza possa continuare a contare su una classe media formata da persone con le competenze necessarie, sufficientemente numerosa da assicurare il normale funzionamento democratico. Il populismo, scelta politica di chi è rimasto indietro, è un problema, ma non una minaccia per la democrazia.
Nei frangenti in cui si trova attualmente la politica italiana queste considerazioni possono offrire qualche motivo di ottimismo, e anche qualche indicazione positiva. Conseguenza certo non prevista dalla Business Roundtable: non per questo meno utile.