Da svolta storica a occasione perduta, il passo rischia di essere breve per le relazioni industriali partecipative nel nostro Paese. L’ingresso di due rappresentanti dei lavoratori nel Consiglio d’amministrazione di Stellantis, la nuova holding a capo dell’alleanza tra Fca e Psa, si è risolta in una delusione per le organizzazioni sindacali nostrane.
Fiat-Chrysler, infatti, in assenza di una norma in materia e di una prassi tutta da costruire, ha scelto di nominare unilateralmente per quel ruolo una manager – Fiona Clare Cicconi – che con gli stessi lavoratori Fca e i sindacati firmatari del contratto non ha avuto alcun contatto né precedente né finora successivo alla nomina. Mentre, da parte francese, la stessa figura è stata individuata in un dipendente del gruppo che già sedeva con analogo incarico nel Cda di Peugeot: Jacques de Saint-Exupéry.
È l’emblema dell’Anno Zero in cui si trova la partecipazione tra imprese e sindacati nel nostro Paese, in particolare nei grandi gruppi a dimensione multinazionale. Restiamo infatti lontani, lontanissimi, dal modello di Mitbestimmung, la cogestione alla tedesca che prevede fino alla metà dei seggi riservati ai rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza delle imprese, con voce in capitolo sulle grandi scelte strategiche delle aziende stesse. Da noi il modello di economia sociale di mercato che ha dimostrato di funzionare assai bene in Germania, e con modalità diverse in altri Paesi europei, è stato invece sempre visto con sospetto. Da parte degli imprenditori anzitutto, che temono di perdere il controllo e la libertà di gestione delle imprese. Ma non meno da una parte delle confederazioni sindacali più legate a una concezione conflittuale del rapporto tra capitale e lavoro.
La partecipazione, così, in Italia si è sviluppata in maniera molto sporadica soprattutto nella forma di scambio di informazioni e, in qualche caso non sempre felice, di azionariato dei dipendenti per le banche e i grandi gruppi privatizzati negli anni ‘90 del secolo scorso. Maggiormente diffusa, anche se non a livello generalizzato, è invece la partecipazione economica, con premi di produzione più o meno consistenti legati ai risultati aziendali, secondo criteri concordati nei contratti di secondo livello. Per questo l’annuncio un anno fa della fusione Fca-Psa con l’ingresso di due rappresentanti dei dipendenti aveva acceso grandi aspettative nei sindacati, andate in gran parte deluse nei giorni scorsi. Tra le organizzazioni dei metalmeccanici, in verità, c’era probabilmente anche l’illusione che l’Italia fosse ancora centrale in un gruppo invece intercontinentale tanto per gli stabilimenti sparsi un po’ in tutto il pianeta quanto soprattutto per proprietà e vertici che non sono più da tempo Torino-centrici. Vista dall’ottica di Fca, la scelta della nomina unilaterale è stata in qualche modo obbligata: impossibile sondare i 192mila dipendenti presenti nei 102 stabilimenti controllati. Ingiusto privilegiare solo i 56mila lavoratori italiani. Impresa improba anche mettere d’accordo organizzazioni assai diverse, come ad esempio la Fiom- Cgil e l’americana Uaw.
Sempre nell’ottica del gruppo automobilistico, il bicchiere così andrebbe visto come mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto. Perché, comunque, per la prima volta viene nominato un consigliere in rappresentanza dei lavoratori – al di là di chi l’abbia scelto – e soprattutto d’ora in poi, applicando il diritto dei Paesi Bassi, nazione in cui ha sede legale Stellantis, questa tutela partecipativa sarà assicurata e ben regolamentata. Peccato che anche Fca abbia sede legale ad Amsterdam e dunque si poteva già prima far riferimento al diritto olandese se davvero si pensa che ciò basti ad assicurare una nomina del rappresentante dei dipendenti più… “rappresentativa”. Ad esempio, infatti, si sarebbe potuto “pescare” la nuova figura tra i membri del Cae, il Comitato aziendale europeo, in cui azienda e dipendenti si scambiano informazioni.
Ma tant’è, legittimamente Fca ha deciso in maniera differente e preferisce non commentare. Allo stesso modo non è stato possibile raccogliere dichiarazioni di Fiona Clare Cicconi, che oggi è responsabile delle Risorse umane del gruppo farmaceutico AstraZeneca. Difficile perfino trovare interviste della manager italoamericana dal lungo curriculum professionale. Curiosamente, l’unica reperibile setacciando la rete è un colloquio con i ricercatori del centro studi Adapt – datato 2011 sia ben chiaro – nel quale Fiona Clare Cicconi parlava della situazione alla Roche, sottolineando l’esigenza che «il sindacato diventi un partner maturo, competente e autorevole per poter concertare con l’azienda decisioni vitali». «L’autorevolezza comincia» però «ad essere il tallone d’Achille delle tre sigle confederali» mentre crescono «i consensi per la Cub». Tanto che, per mantenere gli obiettivi fissati, «spesso l’unico modo per arginare il problema è agire unilateralmente [da parte dell’azienda] su determinate tematiche». Unilateralmente, una parola che ritorna, il contrario della partecipazione.
Ora i sindacati, incassata la mancata consultazione di cui si sono lamentati all’unisono, aspettano di incontrare la nuova consigliera d’amministrazione «per individuare quelle 3 o 4 piste su cui sia possibile sviluppare un confronto realmente partecipativo e un’azione a maggior tutela dei lavoratori che lei dovrebbe rappresentare nel Cda», spiega il segretario generale della Fim-Cisl Roberto Benaglia. A cominciare magari da quali regole applicare per la rappresentanza nel gruppo, suggeriamo noi. Perché questo è certamente uno dei «talloni d’Achille che minano l’autorevolezza dei sindacati». In Italia manca una regolazione per legge della rappresentanza. E sono andati a vuoto pure tutti i tentativi di favorire rapporti partecipativi tra azien- de e sindacati. Ci hanno provato i presidenti della Commissione Lavoro del Senato che si sono succeduti nelle due legislature tra il 2008 e il 2017, Pietro Ichino (Pd) e Maurizio Sacconi (Fi), unificando diverse proposte di legge e cercando varie mediazioni.
Ma, vuoi per mancanza di fondi con cui incentivare l’adozione di nuovi strumenti, vuoi per lo scarso entusiasmo delle parti sociali stesse (ad eccezione della Cisl) non se ne è fatto mai nulla. In realtà, il 28 febbraio 2018 Confindustria, Cgil, Cisl e Uil hanno firmato il patto sulle relazioni industriali e la contrattazione, con l’obiettivo esplicito di creare un sistema di «relazioni più efficace e partecipativo», almeno sul piano organizzativo. E oggi il presidente degli industriali, Carlo Bonomi, invoca un altro “Patto per l’Italia” con governo e sindacati, auspicando una nuova ed efficace concertazione. La realtà, però, parla di contratti nazionali che non si riescono a rinnovare e di sistemi di calcolo dei minimi salariali contestati. Come dire, i fondamentali…
La partecipazione così in Italia è davvero all’Anno Zero. Sul piano legislativo, ma quel che è peggio su quello delle relazioni industriali, che negli ultimi anni sembrano aver subito una regressione. Ci si accontenta di riempire i contratti di secondo livello con misure di welfare aziendale, fiscalmente convenienti, ma non si sperimentano più nuovi modelli organizzativi e di assetto finanziario. Eppure la partecipazione, nelle sue diverse forme, rappresenta la via migliore per ottenere un sano equilibrio fra le esigenze di tutela dei lavoratori e la pace sociale nelle imprese, le migliori condizioni di lavoro con produttività e profittabilità, la soddisfazione dei dipendenti con l’attaccamento all’azienda. Nel caso specifico di Stellantis, dopo la falsa partenza, tocca a Fca dimostrare che non si è trattato di un’operazione di facciata ma di sostanza. Sul piano generale, però, la politica per la sua parte, imprenditori e sindacati per la loro, dovrebbero essere capaci di compiere un salto vero nella modernità.
(Avvenire)