Provate a rispondere a questa domanda e vi renderete subito conto di avere a che fare con un compito tutt’altro che facile. Un modo di procedere potrebbe essere affidarsi al web, magari provando ad inserire qualche chiave di ricerca nella sezione Immagini di Google (provateci anche voi).
I risultati che ne avreste sono poco convincenti: mani che si stringono, diagrammi che raffigurano una molteplicità di elementi che stanno insieme come i nodi di una rete, persone sedute intorno ad un tavolo e che, all’occorrenza, parlano, o guardano uno schermo, o contemplano qualcuno che scrive qualcosa su una lavagna.
Queste rappresentazioni ci soddisfano?
Di certo le persone sono un elemento fondamentale della collaborazione e, se prendete in considerazione la vostra esperienza diretta, anche voi potete sostenere di aver collaborato quando vi siete trovati a lavorare insieme ad altri.
Se avessimo posto questa stessa domanda al signor Taylor – quello dell’organizzazione scientifica del lavoro – alla fine del XIX secolo, anche lui ci avrebbe probabilmente dato una risposta simile. Ci avrebbe parlato, cioè, di una molteplicità di persone che lavorano insieme, svolgendo ciascuna il proprio compito all’interno di un processo produttivo.
Non servono molte nozioni di management o di sociologia per sostenere che lo scientific management – del quale il signor Taylor fu pioniere – è invece una delle cose che più si allontana dal concetto e dalla pratica della collaborazione: processi eterodiretti, mancanza di autonomia decisionale, parcellizzazione e separazione dei compiti, forte limitazione delle relazioni interpersonali.
Le persone sono quindi condizione necessaria ma non sufficiente a far avvenire la collaborazione all’interno di un’organizzazione.
Più o meno ciascuno di noi ha avuto esperienza di team di lavoro che non hanno una chiara visione dei loro compiti, o i cui membri non comunicano tra loro, o non seguono le decisioni prese dal gruppo stesso. A volte neppure in situazioni più semplici, in cui un gruppo di individui si riunisce per produrre risultati immediati, gli sforzi di tutti riescono ad essere veramente produttivi: ricordate com’è andata l’ultima riunione alla quale avete partecipato?
Eppure, nonostante i limiti nel definirla e nel praticarla, la collaborazione è da molti ritenuta un valore aggiunto, sia per i risultati che grazie ad essa team e organizzazioni sono in grado di raggiungere, sia in termini di qualità dell’ambiente di lavoro e di soddisfazione che gli individui ne traggono.
Secondo il Randstad Workmonitor 2014 sulla collaborazione (questo il link della pagina in cui è possibile scaricarlo http://www.randstad.com/press/research-reports/research-reports/), infatti, circa il 70% dei dipendenti di grandi aziende intervistati su questo tema dichiara che la propria performance migliora se il lavoro si svolge in team invece che individualmente.
Una riprova di questo viene anche dalle scelte strategiche di molte aziende che hanno già ritenuto di investire in strumenti digitali per favorire la cosiddetta social collaboration – il 77% delle grandi imprese italiane secondo l’Osservatorio Smart Working 2015 del Politecnico di Milano.
È quindi questa la forma che ha assunto la collaborazione del nostro tempo: relazioni e scambi di informazioni che avvengono su supporto digitale?
Le ICT hanno avuto l’indubbio merito di facilitare la proliferazione di reti sociali – dentro e fuori dalle organizzazioni – e di mettere in contatto persone anche a grandi distanze.
Se proviamo però ad osservare cosa avviene off line durante i momenti di social collaboration è molto probabile che la scena che ci si presenta sia composta da una serie di individui che si trovano in luoghi diversi e la cui relazione è mediata da uno schermo, da un microfono o da una tastiera. In pratica ci troveremmo di fronte quasi un paradosso: una collaborazione senza le persone o, meglio, una collaborazione senza la dimensione fisica e relazionale delle persone, e che si esaurisce nello svolgimento di compiti assegnati in base a competenze e ruoli individuali.
Anche se in chiave 2.0, affidarci alla rotta segnata dall’introduzione degli strumenti digitali nelle organizzazioni non ci porta, di per sé, molto lontano da dove ci avrebbe portato il management scientifico di Taylor alla fine del XIX secolo.
L’organizzazione scientifica del lavoro – pensata più di un secolo fa per gestire processi produttivi industriali – perde il suo senso in un mercato fortemente orientato ai servizi e ai settori creativi, ed in cui innovazione e problem solving rappresentano il vero vantaggio competitivo delle aziende.
In effetti sono molti gli osservatori a sostenere che la crescente importanza che sta assumendo l’approccio collaborativo all’interno delle aziende sia il sintomo di un epocale cambio di paradigma per cui le organizzazioni saranno sempre di più strutturate (o, meglio, destrutturate) in senso orizzontale, aperte, flessibili e capaci di dialogare con l’ambiente nel quale agiscono.
La collaborazione diventa allora la forma mentis che consente alle persone di adattarsi al cambiamento, apprendere costantemente, innovare prodotti e processi interni, risolvere problemi complessi in modi al contempo più creativi ed efficaci.
Oltre alla forma mentis, però, la collaborazione deve trovare anche una forma materiale, che sia in grado di farla passare dalla dimensione concettuale a quella pratica e che consenta alle organizzazioni di valorizzare appieno le capacità delle persone che le compongono per raggiungere i propri obiettivi.
Ecco una prima formula su cui cominciare a costruire.
Collaborazione= engagement + ambiente + processi
Engagement e obiettivi
Le persone – come ci direbbe anche Taylor – sono il primo elemento dell’equazione. Ma collaborare è prima di tutto una questione di motivazione.
Sono sempre di più quelli che orientano la propria vita professionale verso quei contesti in cui sentono di potersi identificare più appieno con la mission e con gli obiettivi dell’organizzazione per cui lavorano. Secondo il Workforce Futures di UBS, ad esempio, questa tendenza è particolarmente vera nelle nuove generazioni di lavoratori: tra i millennials ben il 65% degli intervistati dichiara di voler lavorare per organizzazioni mosse anche da scopi sociali, e l’83% di loro dichiara che sarebbe disposto anche ad accettare stipendi inferiori pur di farlo.
Con la mission, e la cultura organizzativa sottostante, le aziende si giocano una carta importante per aumentare l’engagement delle persone che di esse fanno parte, così come il loro impegno nel raggiungimento degli obiettivi condivisi.
Ambiente e comportamenti
Ogni attività umana per svolgersi ha bisogno di un luogo con le caratteristiche giuste. Pensate a come potrebbe essere cucinare in una palestra o giocare a tennis in una sala operatoria.
Le attività che si svolgono sul posto di lavoro non fanno differenza. Così come sarebbe difficile portare a termine un compito che richiede grande concentrazione in un luogo molto affollato e rumoroso (a proposito, per un punto di vista controcorrente sull’organizzazione degli spazi di lavoro nelle aziende consiglio di leggere questo contributo http://www.economist.com/news/business/21688872-fashion-making-employees-collaborate-has-gone-too-far-collaboration-curse), sarebbe altrettanto difficile lavorare in team in un luogo in cui non è consentito parlare ad alta voce o alzarsi e spostarsi liberamente da un punto all’altro dello spazio.
Molto spesso nelle sedi aziendali non è presente che un numero limitato di luoghi dedicati al lavoro in team e nella maggior parte dei casi si tratta di sale riunioni organizzate secondo lo schema standard: tavolo grande posizionato al centro, un numero variabile di sedute disposte intorno al centro della sala, una lavagna mobile e una parete bianca per le proiezioni.
Eppure secondo la Workspace survey 2016 di Gensler la capacità di innovazione delle persone che lavorano in organizzazioni in cui sono presenti anche spazi pensati per la collaborazione e il lavoro in gruppo è 5 volte superiore rispetto alle organizzazioni in cui sono presenti solo, o quasi esclusivamente, spazi dedicati al lavoro individuale.
I luoghi sono in grado di influenzarci e possono fungere da abilitatori per alcuni nostri comportamenti. Basta pensare alle discipline che studiano i comportamenti degli utenti di siti e ambienti web e che progettano l’esperienza dell’utilizzatore per orientarlo all’acquisto o alla fruizione di un particolare servizio. Se esistono delle correlazioni tra la disposizione di comandi su un display e i comportamenti di chi fruisce di un’applicazione web, allora anche l’organizzazione degli spazi fisici e le caratteristiche intrinseche degli elementi che questo contiene influiscono sul modo in cui ci comportiamo e la nostra capacità di svolgere i compiti che ci vengono assegnati.
Processi e strategia
“La natura è un tempio […] e l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli”, scriveva Baudelaire per parlare della realtà: una fitta rete di correlazioni che tiene insieme tutte le cose ma che la mente umana è incapace di percepire nella sua interezza.
Anche le organizzazioni sono foreste. Foreste composte da persone, competenze, attività, obiettivi e progetti che spesso è difficile percepire, e per cui è ancora più arduo disegnare uno schema che li tenga insieme.
La collaborazione, per la sua stessa natura plurale e multiforme, è uno schermo che ci consente di vedere meglio la complessità dei sistemi organizzativi, così come degli ecosistemi in cui questi agiscono.
Ma la semplice capacità di osservare non è sufficiente a far evolvere un sistema. È per questo che la collaborazione ha bisogno di svolgersi tramite processi orientati al raggiungimento di obiettivi organizzativi.
Come conciliare la strategia aziendale con le aspirazioni professionali dei collaboratori? Come tenere insieme i vincoli tecnici ed economici con le richieste del mercato?
Già dalla prima metà degli anni 2000 numerosi autori hanno insistito sulla necessità di umanizzare le organizzazioni e adottare processi in grado di integrare competenze e aspirazioni individuali con la produzione di valore delle aziende. Con il suo saggio Democratizing Innovation, ad esempio, von Hippel sostiene che le innovazioni di prodotto sviluppate da comunità di utilizzatori (sul modello delle community di sviluppatori di software open source) non solo hanno maggiore probabilità di essere messe in produzione rispetto a quelle sviluppate nei laboratori R&S, ma hanno anche un miglior ritorno commerciale se rapportate ai costi sostenuti dall’azienda.
Sulla scorta di queste considerazioni, sono sempre di più le aziende che sperimentano nuovi modelli di produzione di valore, ad esempio facendo crescere community interne – finalizzate al problem solving e all’innovazione di processo – o esterne per il customer care e l’innovazione di prodotto.
L’apertura implica un aumento degli elementi che fanno parte del sistema e, esponenzialmente, della quantità di informazioni che questi ultimi riversano in esso.
Sarà quindi necessario progettare nuovi processi in grado di far vedere con chiarezza ciò che per ora percepiamo solo come plurale e multiforme e di dare un ordine a ciò che invece ci sembra caotico.
(www.ilgiornaledellepmi.it, 15.11.2016)