I lavoratori italiani sono i più infelici al mondo. Il verdetto è contenuto in State of the Global Workplace, autorevole indagine sullo “stato di salute” globale del lavoro realizzata da Gallup, secondo cui soltanto il 4% degli impiegati italiani si sente appagato sul lavoro. E forse non servono le indagini di mercato per capirlo: basta una ricognizione tra amici e parenti per ottenere risultati simili. Eppure, il tema è assente nel dibattito pubblico e nelle agende della classe dirigente del Paese.
L’esistenza di un fossato così profondo tra lavoratori e lavoro è una mina pericolosissima posta alla base della “cittadinanza economico-sociale” degli italiani. Per colmare questo fossato non c’è alternativa: dobbiamo restituire valore al lavoro. Sul piano culturale, distinguendo in modo inequivocabile tra supporto all’occupazione e lotta alla povertà dopo l’ambiguità del Reddito di cittadinanza.
E sul piano fiscale, alleggerendo il peso dello Stato sulle buste paga per riconoscere un “merito fiscale” a chi lavora, rispetto a chi vive di rendita. Ma questa strategia, in parte già avviata dall’attuale Governo, rischia di non essere sufficiente. Quel 4% di lavoratori soddisfatti è una montagna terribilmente impervia, che può essere scalata solo percorrendo nuove strade. Tra di esse, la più potente è la costruzione in Italia di un modello di partecipazione dei lavoratori alle imprese, partendo dalla meritoria iniziativa di legge popolare della Cisl di Luigi Sbarra che potrebbe esser presto sposata dalla maggioranza, in alternativa alla “bandiera” del salario minimo issata dalle opposizioni. Sul piano culturale la partecipazione consente di superare finalmente la feroce contrapposizione tra capitale e lavoro, tra profitto e ruolo sociale dell’impresa.
La dottrina classifica tre livelli fondamentali di partecipazione: consultiva, economica, gestionale-strategica.
Se la prima non basta più a soddisfare le aspettative dei lavoratori, la partecipazione economica sarebbe invece un passaggio di grande impatto: affermerebbe che il successo delle imprese (che funzionano) è dipeso in modo rilevante dalla qualità e dall’impegno dei propri lavoratori. Estendendo ai dipendenti di ogni livello i sistemi di retribuzione aggiuntiva legati ai risultati dell’azienda – come l’azionariato diffuso e il management by objectives (i premi in base a obiettivi prefissati), che meritano di essere incoraggiati dal fisco – si può cambiare profondamente il rapporto tra i lavoratori e la propria azienda. Infine il terzo livello di partecipazione, ovvero il coinvolgimento dei lavoratori nella gestione delle imprese, risulta fortemente divisivo in un sistema di micro, piccole e medie imprese.
Molto opportunamente la proposta della Cisl evita un approccio “impositivo”, prevedendo un mix di incentivi e affidando un ruolo decisivo alla contrattazione. Nonostante ciò il rischio di suscitare la radicale opposizione del convitato di pietra – gli imprenditori – è molto alto. È impossibile, dunque, realizzare un’economia della partecipazione “condivisa” tra sindacati e imprese? Credo sia possibile solo a una condizione: abbandonare il modello tedesco, costruito sul gigantismo delle grandi imprese e sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale, che non è adatto al nostro sistema imprenditoriale. Invocare la presenza dei lavoratori nei Consigli d’Amministrazione, in particolare nelle imprese familiari, rischia solo di trasformare il confronto sulla partecipazione in un “rodeo ideologico”.
È necessario piuttosto costruire altri luoghi di confronto tra datori di lavoro e lavoratori, sulla base di esempi virtuosi già esistenti in alcune grandi imprese come comitati strategici e commissioni paritarie. In questo modo si costruirebbe una “via italiana alla partecipazione”, un vestito sartoriale pensato sulle esigenze dei nostri lavoratori e delle nostre imprese. Capace di restituire al lavoro quella centralità assoluta, che la Costituzione ha sancito ma che non abbiamo mai avuto il coraggio di realizzare davvero.
(Avvenire)