Mi sono occupato di partecipazione all’inizio della mia carriera di ricercatore, alla fine degli anni ottanta, quando lavoravo all’ISVET che era l’istituto di ricerca del gruppo ENI. Il tema non mi appassionò, tanto che negli anni successivi ho fatto un dottorato in sociologia in Inghilterra, con una tesi che si muoveva su una linea di ricerca totalmente opposta: l’argomento era il processo di formazione del movimento operaio in Gran Bretagna tra ottocento e primi del novecento, che studiavo applicando il concetto sociologico di “movimento sociale”.
Tornato in Italia, mi sono occupato di conflitti contemporanei: ho partecipato ad una approfondita ricerca sul movimento alterglobal (quello di Genova 2001) con l’università di Roma ed una sul consumo critico con l’università di Milano. Riflettendo su questi lavori, mi è cominciato a sorgere qualche dubbio se avesse senso continuare ad interpretare la società contemporanea come anch’essa in via di strutturazione intorno ad un conflitto centrale, in continuità con il novecento (soltanto europeo, peraltro).
Negli ultimi anni, poi, ho avuto modo di collaborare a due ricerche con la Fondazione Pastore sulla bilateralità in settori come l’edilizia e il commercio, e sulla partecipazione in alcune grandi aziende della metalmeccanica. In queste occasioni ho riscoperto la tematica della partecipazione, come strada meritevole di essere perseguita sia sul piano della politica sindacale che della ricerca sulle relazioni di lavoro. Tanto più che negli anni novanta avevo preso parte ad una ricerca sul sindacalismo in alcune aziende di diversi settori, a partire dall’ipotesi che il conflitto di lavoro potesse essere rilanciato sulla base della logica di azione dei “nuovi movimenti sociali”. A distanza di venti anni, quella prospettiva mi sembra molto meno fertile, con tutta la prudenza del caso necessaria quando si parla di tendenze.
Il suo punto di vista sulla democrazia in azienda…
Già negli anni ottanta appresi dal gruppo di ricerca col quale lavoravo che vi è una discontinuità fra i fenomeni partecipativi che allora indagavamo (anche negli Stati Uniti) e il dibattito sulla democrazia industriale degli anni settanta.
Questo mi appare ancora più vero adesso, per cui chi legge le dinamiche odierne attraverso le lenti, magari velate di nostalgia, del “sindacalismo di controllo”, agisce nel senso di frenare il possibile sviluppo del movimento partecipativo, che già appare sottodimensionato rispetto alla sue potenzialità ed anche necessità. Ci vorrebbe una ricerca di sociologia storica, che indagasse questa trasformazione, anche a livello internazionale, relativamente agli orientamenti sindacali e con l’ipotesi che istituzioni formalmente uguali – ad esempio gli istituti di cogestione nord-europei –siano involucri per pratiche dal contenuto diverso rispetto ad un tempo.
Quali strategie ritiene prioritarie nel contesto italiano e quali i vantaggi socio-economici di una maggior partecipazione dei lavoratori nella creazione e distribuzione meritocratica del valore aziendale?
Con riferimento alla situazione italiana, vedrei il significato del coinvolgimento dei lavoratori nei processi produttivi e dell’accesso del sindacato ai processi decisionali aziendali come uno spazio definito da tre assi: il contrasto ai processi di finanziarizzazione dell’economia, la resistenza al declino della grande impresa manifatturiera e la visione dell’azienda quale emerge dalla teoria degli stakeholder.
Una lacuna che gli studi sulla partecipazione dovrebbero colmare mi sembra riguardi la specificazione dei diversi contesti organizzativi e di business – ad esempio manifattura/servizi; mercato locale/internazionale; produzione in serie/piccoli lotti – e delle corrispondenti forme di partecipazione che si sono diffuse o per cui esistono potenzialità di sviluppo.