Sono un’allieva di Gino Giugni, con il quale mi laureai a Bari nel lontanissimo 1972 e con il quale ho collaborato fino alla sua morte. Sono stata professoressa di Diritto del lavoro nell’Università di Bari, in quella di Macerata e infine alla “Sapienza”, dove nel 2012 – grazie alla maturazione di ben 43 anni di contributi – ho deciso di andare in pensione anticipata, stanca delle inenarrabili difficoltà contro le quali mi facevano combattere i continui tagli alla ricerca, e da allora vado sperimentando la professione legale dalla quale mi ero astenuta per dedicarmi alla ricerca universitaria. L’impronta giugniana e la scelta del tempo pieno hanno di certo influito sui temi di mio interesse, facendomi privilegiare – oltre alle questioni di genere – gli aspetti legati all’autonomia collettiva piuttosto che gli argomenti più direttamente connessi alle vertenze individuali.
Il suo punto di vista sulla democrazia in azienda ?
Le mie risposte a questa domanda potrebbero essere molteplici, soprattutto perché l’espressione si presta a differenti interpretazioni, che coinvolgono il rispetto dei diritti fondamentali dei singoli lavoratori oppure la possibilità di una rappresentanza collettiva degli stessi. Anche per mia deformazione professionale mi fermo al secondo aspetto.
Ad essere sincera, quando se ne cominciò a parlare il tema della democrazia industriale non mi appassionava. A differenza di Gino Giugni, aderivo quasi completamente ad una visione conflittuale del sindacato: ritenevo che proprio il conflitto fosse garanzia di democrazia e non vedevo di buon occhio esperimenti che avrebbero potuto ricordare la cogestione, certa com’ero che i ruoli e le responsabilità di ogni parte sociale fossero e dovessero restare differenti e opposti.
Può darsi che un simile approccio fosse favorito anche da un modello economico ed organizzativo duale, modello che si è sgretolato a partire dagli anni ’80 con le grandi trasformazioni che hanno coinvolto l’economia globale.
Ora, forse anche per un certo “ammorbidimento” collegato al trascorrere degli anni, ritengo che una visione duale e conflittuale della democrazia industriale non sia idonea a garantire quella giustizia sociale alla quale si ispira da sempre la mia ricerca.
Quando sono le stesse aziende a patire i contraccolpi negativi della globalizzazione, serve ancora valorizzare solo i rapporti conflittuali tra le parti? E questo soprattutto in Italia, paese di piccoli e piccolissimi imprenditori che hanno subito e subiscono la crisi al pari dei loro dipendenti?
E non è forse vero che le aziende più avvedute, quelle che riescono meglio ad affrontare i turbolenti marosi del mercato, sono quelle che puntano sul loro capitale umano? Insomma, sono giunta alla conclusione che non sia (più?) utile tracciare un solco netto e invalicabile tra gli interessi dei lavoratori e quelli dell’impresa e che ripescare i valori umanistici di Olivettiana memoria potrebbe essere un notevole fattore di democrazia.
Quali strategie ritiene prioritarie nel contesto italiano e quali i vantaggi socio-economici di una maggior partecipazione dei lavoratori nella creazione e distribuzione meritocratica del valore aziendale ?
Questa è una domanda alla quale faccio davvero fatica a rispondere. Da quello che ho detto finora si dovrebbe comprendere che a mio giudizio i vantaggi di una maggiore partecipazione dei lavoratori potrebbero essere molti e coinvolgere differenti ambiti, perché dalla partecipazione deriverebbero benefici per tutte le parti, contribuendo ad un complessivo miglioramento sia sociale sia economico.
Quello che mi pare difficile è rappresentato proprio dall’individuazione di strategie che tendano a questo scopo.
La mia impressione è che purtroppo manchino forze in grado di esprimere un’azione adeguata allo scopo.
Prima di tutto, i soggetti di rappresentanza collettiva degli interessi – sia sul versante dei lavoratori sia su quello datoriale – mi paiono ancora troppo legati ad una visione di un mercato del lavoro molto diversa da quella con cui ci si confronta nella realtà.
La riforma del sistema di contrattazione collettiva, di cui si discute da anni senza riuscire a giungere ad una soluzione, è forse il migliore esempio di quanto ho appena detto.
Nelle grandi aziende il contratto nazionale ha ormai perso quasi del tutto la sua funzione e nelle piccole serve solo ad individuare le retribuzioni minime. Il sistema di inquadramento dei lavoratori è indissolubilmente legato ad un’organizzazione del lavoro di tipo fordista ormai scomparsa e non consente di collegare adeguatamente i livelli retributivi alle nuove mansioni e alle nuove responsabilità dei lavoratori. Le attuali forme di organizzazione sindacale degli interessi non riescono a tener conto del fatto che all’interno di una stessa azienda lavorano persone dipendenti da datori di lavoro differenti e con professionalità molto diverse.
Chi e come, perciò, può assumersi la rappresentanza collettiva dei lavoratori?
Insomma: credo che una strategia per rafforzare (o introdurre?) la partecipazione dei lavoratori richieda prima di tutto uno sforzo creativo davvero impegnativo, sforzo che non mi sento in grado di esprimere neppure come suggerimento alle parti direttamente interessate.
dispiace quando uno studioso di diritto del lavoro, il diritto più vivo che ci sia, dopo una lucida diagnosi della situazione, frutto anche di un lungo percorso di riflessione, non se la senta di affrontare lo sforzo di una proposta ma, forse, da il senso di un tempo in cui bisognerebbe tornare a pensare il diritto come jus ex facto oritur e lasciare liberi i fatti, le persone, di farsi il loro diritto, ovviamente senza troppo ledere l’acquis