Studio il Diritto del lavoro praticamente da quando ero bambino e la scintilla furono “i fatti di Avola” del 1968, uno sciopero di braccianti per il rinnovo del contratto di lavoro in cui due manifestanti furono uccisi dalle forze dell’ordine schierate a difesa degli agrari: io scrissi un articolo molto “indignato” sul giornalino della mia scuola (frequentavo la terza media). Da allora ho sempre pensato – e continuo a pensarlo – che non puo’ esserci progresso – in quanto elemento costitutivo del progresso e’ la giustizia sociale – senza rispetto della liberta’ di manifestare per la difesa dei propri interessi e diritti.
Insomma condivido fino in fondo l’idea delle democrazie moderne, nate con l’industria e sfociate nelle nostre sofisticate societa’ della conoscenza: il conflitto e’ una sana e ineliminabile modalita’ di reagire a (e sottolineare) ingiustizie, squilibri, disfunzioni, soprusi e vere e proprie prepotenze. Un prezioso termometro per misurare lo stato di salute delle nostre societa’. E il conflitto – garantito formalmente dal riconoscimento costituzionale del diritto di sciopero a livello tanto italiano (art. 40 Cost.) quanto europeo (art. 28 della Carta dei diritti fondamentali del cittadino europeo in vigore dal 2009) – e’ anche una importante modalita’ per permettere a tutti i lavoratori “la partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 Cost.).
Nella mia vita di studioso mi sono pero’ anche reso conto che al conflitto non e’ agevole accedere – nemmeno se lo sciopero e’ configurato come diritto – e che gli esiti dei conflitti non sempre comportano maggiore giustizia sociale. I lavoratori per scioperare pagano un prezzo che puo’ anche essere molto alto (al di la’ della perdita del salario rapportata all’astensione dal lavoro: si pensi al rischio di perdere il lavoro stesso cui si espongono i precari o coloro poco tutelati contro i licenziamenti, magari programmati e comminati “a freddo”, o i dipendenti di imprese con elevata flessibilita’ organizzativa e geografica, sempre piu’ diffusa grazie alle tecnologie e ai moderni sistemi di trasporto e commercializzazione). Puo’ dunque persino succedere che il conflitto venga piu’ facilmente utilizzato da chi e’ piu’ tutelato con scarsa considerazione dei lavoratori socialmente piu’ deboli e svantaggiati. Qui dovrebbero svolgere un ruolo importante di riequilibrio la politica e, innanzitutto, le grandi organizzazioni sindacali. Ma ne’ l’una ne’ le altre possono oggi essere considerate in buona salute, soprattutto grazie alle ideologie liberiste che diffondono a piene mani il veleno dell’egocentrismo basato sul libero mercato e sul calcolo delle convenienze di breve periodo. Insomma il conflitto come veicolo di giustizia sociale mi e’ parso sempre piu’ un’arma spuntata o, addirittura, nella stagione delle solidarieta’ evanescenti, una contraddizione in termini.
Questo mi ha fatto guardare con maggiore attenzione e interesse ai meccanismi di funzionamento delle imprese, in una logica che riuscisse a mettere in connessione dimensione micro e macro. Mi e’ stato molto utile andare oltre la tradizione europea, guardando, da un lato, agli studi sul partial gift exchange di economisti americani come George Arthur Akerlof (poi premio Nobel nel 2001) e dall’altro alle filosofie produttive orientali, in particolari giapponesi (“Lo spirito del dono e il contratto di lavoro”, in Diritto delle relazioni industriali, 1994, n. 2). Ho individuato cosi’ nuovi possibili nessi tra antichi modelli antropologici legati al dono e le forme mutevoli della produzione capitalistica , grazie ai quali mi e’ parso utile e interessante riscoprire la dimensione comunitaria dell’impresa come crogiuolo di culture del lavoro piu’ moderne di quelle classiche ordoliberali o organicistiche, in cui si potesse tornare a coniugare una dimensione partecipativa a livello aziendale senza negare la dimensione conflittuale delle societa’ democratiche. Qui arrivano i miei studi della meta’ degli anni ’90, nei quali mi fermo un attimo prima di analizzare funditus i temi della democrazia industriale veri e propri.
Credo pero’ che sia stato un percorso originale per approdare a una rivalutazione dei modelli sindacali partecipativi. Questa rivalutazione – come ha subito capito un Maestro della materia come Mario Napoli, purtroppo scomparso di recente (ma si puo’ leggere il suo intervento negli atti delle giornate di studio su “Rappresentanza collettiva dei lavoratori e diritti di partecipazione alla gestione delle imprese”, Giuffrè , 2006, p. 299 ss.) – la devo a studi del decennio successivo, occasionati da un incarico inaspettato come relatore alle giornate di studio nazionali dell’Associazione italiana di diritto del lavoro e della sicurezza sociale del 2005. Fu allora che mi resi davvero conto di come il diritto sindacale italiano per la sua indifferenza ai piu’ solidi percorsi partecipativi rischiasse di perdere l’aggancio ai migliori sistemi di relazioni industriali europei, come quello tedesco, che , seppure a fatica, si era fatto strada in una Unione europea alla ricerca di un modello giuridico di impresa adatto ad un’economia sociale che potesse coniugare ancora sviluppo economico e progresso sociale. E, in quell’occasione, argomentai con tutta la forza che avevo la necessita’ di collegare con urgenza la rivitalizzazione della rappresentanza sindacale in azienda con una rilettura di un’altra, trascurata, norma della Costituzione italiana dai forti contenuti partecipativi, l’articolo. 46 Cost., alla quale proprio gli sviluppi dell’Unione europea potevano donare una nuova giovinezza (forse la prima, visto il suo congelamento in uno stato embrionale).
Il suo punto di vista sulla democrazia in azienda…
Da quanto appena detto, dovrebbe apparire chiaro che per me la democrazia in azienda e’ strettamente connessa alla giustizia sociale nei rapporti di lavoro e tra le forze produttive. Essa puo’ servire a far nascere e crescere una cultura dell’impresa e del lavoro in cui, pur nella ineliminabile contrapposizione di interessi, si raggiungano giorno per giorno i compromessi necessari per incrementare la ricchezza materiale di tutti senza negare le dimensioni immateriali dell’essere umano. Condivido quelle visioni che alla democrazia in azienda attribuiscono un radicamento non solo socio-economico ma anche etico.
L’impresa e’ e deve essere una formazione sociale con finalita’ essenzialmente economiche ma nella quale non si puo’ ignorare l’importanza del fattore umano (la migliore etica del lavoro deve far conto sulla generosita’, sulla spinta a donare se stessi oltre una dimensione piattamente corrispettiva) e l’influenza del contesto organizzativo sulla “personalita’ morale” del lavoratore (come dice, ancora una volta magistralmente, l’art. 2 della Costituzione italiana). Come hanno scritto Frank Tannenbaum e Guido Baglioni, l’impresa e’ un’istituzione troppo importante per lasciarla nelle mani dei soli capitalisti o del solo management. Naturalmente nessun giurista puo’ ignorare il rispetto della logica proprietaria, in cui rientra anche l’impresa. Ma il funzionamento dell’impresa e’ troppo importante per l’intera societa’ per essere lasciato ai soli proprietari. La democrazia in azienda serve per allargare gli orizzonti e gli interessi di ciascuna impresa, a proiettarla oltre interessi egoistici troppo angusti e limitati. Ovviamente sempre nel rispetto dei diversi ruoli e poteri: altrimenti non parleremmo piu’ di impresa capitalistica. Ecco: la democrazia in azienda puo’ servire ad orientare i sistemi capitalistici verso i modelli a mio parere migliori, piu’ equilibrati. Certo non serve e non deve servire a sovvertire sistemi politici o economici.
Quali strategie ritiene prioritarie nel contesto italiano e quali i vantaggi socio-economici di una maggior partecipazione dei lavoratori nella creazione e distribuzione meritocratica del valore aziendale?
Rispondo prima per i vantaggi, avendo gia’ tratteggiato quelli generali. A questi se ne possono aggiungere vari altri specifici per ciascuna impresa, condizionati in profondita’ dal tipo di partecipazione praticata e dalla qualita’ delle pratiche partecipative.
Al riguardo generalizzare non e’ possibile: molto diverse sono le conseguenze sia dei diversi modelli giuridici – che vanno da un forte potenziamento dei diritti di informazione e consultazione fino alla cogestione con poteri di veto attribuiti alle rappresentanze aziendali; dalla partecipazione dei lavoratori ad organi societari fino alla c.d. partecipazione azionaria, anch’essa variamente configurabile – sia delle culture aziendali e sindacali cui possono accompagnarsi. Comunque i modelli partecipativi aprono indubbiamente la strada a politiche salariali piu’ sensibili alle variazioni della produttivita’ o della profittabilita’ aziendale. Possono rinsaldare il legame tra impresa e lavoratori e permeare in profondita’ convinzioni e comportamenti dei soggetti sindacali. Anche qui con enormi differenze determinate dai diversi contesti: si va dal sindacato americano della Chrysler, azionista di riferimento attraverso i fondi pensione; a quello tedesco della Volkswagen, che cogestisce orari, formazione e licenziamenti assicurando tutele ai lavoratori e massima produttivita’ all’impresa o i necessari adeguamenti dei trattamenti in periodi di crisi. C’e’ anche da dire che i modelli partecipativi incentrati sull’azienda possono funzionare meglio nelle dimensioni medio-grandi e non garantiscono solidarieta’ extra-aziendali. Ma questo e’ un discorso parzialmente diverso.
Quanto alle strategie prioritarie in Italia, io penso che la promozione di esperienze partecipative rivesta ancora una grande importanza, forse ancora maggiore rispetto al passato vista la grave crisi che attraversa il nostro sistema manifatturiero. Se non imprimiamo una segnatura ordinamentale al modello di impresa che riteniamo piu’ congeniale alle attuali esigenze del Paese rischiamo di diventare sempre piu’ la patria di Arlecchino, con un sistema socio-economico dalle infinite pezzature tenute insieme dall’improvvisazione e dalla buona sorte. Certo, considerati la debolezza della nostra politica nel contesto europeo e internazionale, non si possono nutrire eccessive illusioni o ambizioni. Ma una legislazione attuativa dell’ art. 46 Cost. mi sembrerebbe il minimo, una legislazione che riconoscesse ai lavoratori un’ampia gamma di strumenti partecipativi , tali da non lasciarli in balia di avventurieri dell’industria e della finanza. Si potrebbe partire dalla migliore tradizione europea continentale (ormai non solo tedesca), riconoscendo ad organismi unitari di rappresentanza dei lavoratori una qualche voce in capitolo per le decisioni aziendali importanti e un diritto ad esser presenti nei consigli di amministrazione delle societa’ di maggiore dimensioni; e si potrebbe poi predisporre misure promozionali per quelle imprese che realizzino modelli partecipativi piu’ incisivi, secondo le migliori prassi internazionali (per un esercizio concreto, vedi la proposta di legge elaborata da un gruppo di studiosi coordinati da Mario Rusciano e da me, e pubblicata dalla rivista Diritti Lavori Mercati, 2014, n. 1). Indispensabile pero’ e’ un legislatore che abbia il coraggio di distaccarsi da soluzioni pilatesche o apparenti, come quelle realizzate con la legge delega n. 92 del 2012, peraltro inattuata. Neppure rilevanti mi sembrano quelle soluzioni, rilanciate dalla legge di stabilità per il 2016, incentrate unicamente sulla parziale defiscalizzazione dei salari di produttivita’, che nulla garantiscono sul piano dell’equita’ sociale, incoraggiando piuttosto convenienze aziendalistiche di corto respiro.
Un problema davvero complesso da risolvere e’ invece come promuovere cultura e modelli partecipativi in un sistema economico fatto di piccole imprese (90% con meno di 10 dipendenti) e di lavoratori precari (oltre 2 milioni di contratti a termine, che non accennano a diminuire nonostante il contratto a tutele crescenti, e il variopinto mondo della parasubordinazione, su cui ancora e’ difficile prevedere l’impatto del Jobs Act). Qui sarebbe indispensabile una rete solida di relazioni industriali territoriali, di cui pure esiste qualche tassello, come gli enti bilaterali o qualche esperienza di welfare territoriale. Ci vorrebbe un grande impegno corale, uno sforzo di capacita’ innovativa e coesione sociale, quale in poche circostanze il nostro Paese e’ riuscito a produrre.
Comunque non esistono soluzioni ideali, totali e immediate per innervare percorsi partecipativi nel sistema italiano di relazioni industriali. Gia’ sarebbe tanto aprire qualche strada reale ai modelli partecipativi, sostenere qualche significativa sperimentazione territoriale, valorizzare le buone pratiche. Per il resto, non resta che piantar rose sperando in buone fioriture e in ulteriori estimatori e imitatori.
i professori di diritto, anche quando sviluppano ragionamenti concreti, sembrano sempre chiusi in una turris eburnea dall’alto della quale guardano i tetti delle botteghe ma non vedono gli interni e, soprattutto, non avvertono come, nella piccola impresa, erede della bottega rinascimentale, la democrazia non si sviluppa nelle architetture che tradizionalmente annettiamo alla democrazia, ma nel confronto quotidiano delle esperienze di lavoro, che andrebbe valorizzato soprattutto lasciandolo libero di articolarsi come meglio può