Enrico Grazzini – I lavoratori nei cda: il modello tedesco che l’Italia colpevolmente ignora

Nella terra di Angela Merkel vige un sistema di governance delle imprese basato sulla partecipazione e sulla co-decisione dei lavoratori. Da noi invece tutti sembrano schierarsi contro l’idea di democrazia economica: Confindustria, governo, sindacati, Grillo e persino i leader della sinistra radicale. Ma senza di essa la democrazia politica si spegne e non si esce dalla crisi.


Confindustria e sindacati, governo Renzi, Squinzi e CGIL, destra, sinistra e centro, e perfino Grillo, Bertinotti, Ferrero e Vendola, tutti, anche se ovviamente con differenti argomentazioni, sono contro la democrazia economica. O nel migliore dei casi la ignorano. La questione democratica più urgente è certamente quella di contrastare le controriforme del Senato ed elettorali proposte dal premier Renzi. Ma in prospettiva il problema della democrazia economica non è meno importante per le sorti della democrazia italiana. Tuttavia la cultura italiana è molto arretrata su questo fronte[1].

Tutti (o quasi) sono contro la possibilità che i lavoratori possano eleggere i loro rappresentanti nei Consigli di Amministrazione delle aziende pubbliche e private e co-decidere, con pari dignità degli azionisti, le strategie e la gestione delle imprese, come invece accade da sessanta anni in Germania. Eppure la Repubblica democratica Italiana dovrebbe essere fondata sul lavoro. Ma non c’è democrazia per il lavoro nelle aziende. Il lavoro non ha voce nelle imprese ed è considerato solo un costo e non la vera fonte del valore. La mancanza di partecipazione con potere decisionale del lavoro nelle imprese danneggia sia la democrazia che l’efficienza aziendale. Senza elementi di democrazia economica la finanza speculativa vince sull’economia produttiva e i grandi capitali privati sfruttano i beni pubblici e vincono sui diritti dei cittadini. Senza democrazia nell’economia il lavoro perde senso esistenziale, intelligenza e valore economico.

La forza industriale – e quindi anche la potenza finanziaria e politica – della Germania riposa da sessanta anni sul fatto che i lavoratori per legge nelle grandi e medie aziende eleggono sia il consiglio di fabbrica sindacale che i loro rappresentanti negli organi direttivi con pieni poteri, alla pari degli azionisti. Questa è la Mitbestimmung, che significa letteralmente co-decisione, e non cogestione, come erroneamente si traduce in Italia. Da 60 anni la Mitbestimmung costituisce un riferimento unico in Europa e nel mondo, esemplare. E la partecipazione co-decisionale dei lavoratori fa bene sia al lavoro, che così difende l’occupazione e il reddito, che alle imprese, che possono sfruttare l’interesse caratteristico dei lavoratori (e non della finanza) a sviluppare le attività produttive in maniera sostenibile nel lungo periodo. Non a caso qualità e innovazione sono i fattori di successo della manifattura germanica.[2]

Ma in Italia nessun partito o movimento o sindacato mette al centro del suo programma la democrazia economica dal basso. Anche l’ultraliberista Unione Europea è fortemente contraria alla Mitbestimmung; spinge invece per estendere il modello anglosassone di corporate governance dell’impresa, quello che dà tutto il potere ai manager e concede tutta la ricchezza creata dalle imprese agli azionisti, cioè alle grandi famiglie e alla grande finanza che domina l’azionariato delle maggiori aziende: banche d’affari, fondi pensione, fondi speculativi, private equity, fondi sovrani controllati da Stati stranieri, ecc.

La democrazia nelle imprese viene spesso negata anche dalla sinistra. Basti pensare al durissimo sciopero dei lavoratori dei trasporti municipali a Genova contro la giunta del sindaco vendoliano Marco Doria per la minacciata privatizzazione. Doria puntava a privatizzare rapidamente l’ente pubblico – con annessi licenziamenti e aumenti delle tariffe –: non gli è mai passato per la mente che i lavoratori potessero, e possano tuttora, eleggere democraticamente i loro rappresentanti per partecipare al CdA dell’ente e dare così il loro contributo al suo risanamento.

Eppure la possibilità in teoria ci sarebbe. L’articolo 43 della Costituzione Italiana recita così: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Il grassetto è aggiunto da chi scrive.

I padri costituenti furono assai più saggi della sinistra attuale e previdero perfino la possibilità che i lavoratori potessero cogestire le aziende. L’articolo 46 (del tutto inapplicato) della Costituzione infatti recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”

Ma a Vendola, e neanche, mi sembra, al comunista Ferrero, è mai passato per la mente di proporre che ai lavoratori delll’Ilva sia concessa la possibilità di nominare democraticamente dei loro rappresentanti nel CdA, per esempio per controllare che i capitali pubblici immessi dallo stato per risanare l’azienda non finiscano all’estero in qualche paradiso fiscale, a vantaggio di chi ha rovinato l’impresa svenduta anni fa dallo stato ai Riva.

In Italia esiste solo la peggiore forma di cogestione, ovvero la cooptazione dall’alto dei dirigenti sindacali in alcuni organismi pubblici, come l’INPS. Spesso tra l’alta burocrazia e la dirigenza sindacale si instaura una complicità corporativa. Ma in Italia non esiste la possibilità che, come accade in Germania, i lavoratori – tutti, con o senza tessera del sindacato – eleggano dal basso, democraticamente i loro rappresentanti nei CdA delle aziende pubbliche, come quelle dell’acqua, dei trasporti, dei rifiuti, dell’energia. Da noi comanda solo il padrone, pubblico o privato, senza controlli e trasparenza.

Le città diventano centri commerciali a favore esclusivo del profitto di poche famiglie (avete in mente per esempio la famiglia Ligresti?) e di pochissime multinazionali, come quelle dell’acqua e dell’energia. Per la destra italiana l’austera e disciplinata Germania è spesso considerata esemplare: ma a Berlino l’azienda dell’acqua da privata è diventata municipale. Nel nostro paese si preferisce privatizzare, sempre e comunque, anche i servizi pubblici che però potrebbero essere gestiti in maniera più efficiente con la partecipazione nei CdA dei rappresentanti nominati dalle comunità locali di utenti e dai cittadini – come ci ha insegnato la compianta Elinor Ostrom, studiosa dei beni comuni e premio Nobel dell’economia -.

Non è certamente un caso che in Italia le esperienze di bilancio partecipato siano del tutto marginali e non riguardino le grandi città come Roma, Milano, Torino, Venezia, Firenze e Napoli, che pure sono guidate da sindaci di sinistra e centrosinistra, e quindi per definizione… molto democratici. A partire dagli anni ’90, da Porto Alegre in poi, il bilancio partecipato si è diffuso in molti paesi, dal Brasile al Perù, dal Sud America agli Usa e all’Europa. Ma in Italia il ceto politico locale non desidera che i cittadini partecipino all’elaborazione dei bilanci comunali. I politici vogliono gestire tutto il bilancio da soli dal momento che sono stati eletti. Non concepiscano che i cittadini possano gestire una quota dei soldi pubblici per indicare le loro esigenze, elaborare dei progetti, discuterli, decidere insieme al comune quelli prioritari che è possibile realizzare, e monitorare la loro effettiva esecuzione.

Il bilancio partecipato è stato realizzato in Italia con successo solo in qualche piccolo comune come Grottammare (Ascoli Piceno) e Capannori (Lucca)[3]. Ma nelle grandi città i sindaci, a parte qualche eccezione più unica che rara – come la ABC, l’azienda municipale napoletana per la gestione dell’acqua che prevede un comitato di cittadini con poteri di controllo (peraltro attualmente solo consultivi, più formali che reali) -, si guardano bene dal cedere anche solo briciole di potere a favore della cittadinanza. Così l’opacità, l’inefficienza e la malversazione dilagano. In questo contesto i casi di grande corruzione come quelli del Mose di Venezia non devono stupire.

Beppe Grillo tuona contro la corruzione della casta politica ed è a favore del referendum sull’euro, come la Lega di Salvini. Grillo è giustamente favorevole a forme di democrazia diretta sperimentate da decenni con successo in Svizzera e California, dove fisco e spese pubbliche possono essere decisi dai cittadini con referendum e leggi di iniziativa popolare. Ma Grillo sembra ignorare la questione fondamentale della democrazia del lavoro nelle industrie e negli enti pubblici. Come se non volesse disturbare troppo i poteri forti dell’economia e della finanza, quelli che veramente contano e condizionano e manovrano l’azione politica. Grillo denuncia l’impotenza dei sindacati e la loro burocratizzazione. Ma la denuncia diventa qualunquismo senza proporre – come Grillo non fa – forme di democrazia sindacale ed economica dal basso.

Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, è ovviamente assolutamente contrario a condividere il potere decisionale con i lavoratori e quindi al loro ingresso nei consigli d’amministrazione. Attualmente invece è diventato di moda – vedi i casi di Intesa, Unicredito, Telecom e altri – distribuire ai singoli lavoratori dei pacchetti di azioni assolutamente minoritari e ininfluenti per coinvolgerli nella gestione aziendale che però è decisa e determinata esclusivamente dal management e dagli azionisti. Così, imitando l’esperienza anglosassone della partecipazione finanziaria, i lavoratori vengono incatenati ai risultati finanziari delle aziende. Che dipendono però sempre di più dalla speculazione di borsa, ovvero dalle decisioni volatili e di breve periodo dei giganti della finanza.

La CISL di Bonanni è a favore della partecipazione finanziaria che subordina i lavoratori alle imprese, e divide i lavoratori delle aziende profittevoli da quelle che non lo sono. Vorrebbe che i sindacalisti sedessero nei CDA delle aziende – come nella Banca Popolare di Milano, con esiti molto controversi -. Ma si guarda bene dal proporre il modello co-decisionale tedesco, cioè l’elezione diretta da parte dei lavoratori dei loro rappresentanti nei CdA delle imprese.

Talvolta (raramente) Susanna Camusso evoca l’articolo 46 della Costituzione ma apparentemente senza alcuna convinzione, solo come una forma di pressione per tentare (inutilmente) di dare più potere ai negoziati e alle continue e infruttuose concertazioni con Confindustria e governo. La Fiom di Maurizio Landini giustamente reclama una legge che imponga la democrazia sindacale: e la democrazia economica è complementare alla – e rafforzativa della – democrazia sindacale.

In effetti sembra che sindacati confederali siano preoccupati di perdere potere nei confronti della base dei lavoratori che potrebbero scavalcare le burocrazie sindacali. In Germania per esempio il sindacato ha circa il 20 per cento dei tesserati sul totale dei lavoratori, cioè meno del 40 per cento circa dell’Italia. Forse CGIL e la CISL hanno anche timore di perdere tessere e adesioni con l’introduzione di una possibile versione italiana della Mitbestimmung.

Per Renzi, che intende abolire le elezioni per il Senato e le Province e che apre al presidenzialismo, la democrazia economica dal basso è un ostacolo: vuole riformare la pubblica amministrazione in maniera autoritaria, senza coinvolgere in processi di democrazia partecipativa i lavoratori e gli utenti dei servizi pubblici, cioè quelli che sarebbero i primi interessati al loro buon funzionamento.

Ma perfino la sinistra marxista, o con radici marxiste, come Bertinotti, Ferrero e Vendola, anche se in forme ovviamente diverse, rifiutano o ignorano la democrazia economica. Secondo loro, la democrazia nelle imprese potrebbe spegnere la conflittualità di classe e portare a forme di corporativismo tra lavoratori e impresa. Ma sembrano ignorare il fatto che il conflitto sindacale non risolve tutto, ed è perdente senza sponde politiche e leggi a favore dei diritti del lavoro.[4]

Un’altra critica è che la democrazia economica potrebbe enfatizzare il nazionalismo. In caso di chiusure o cessioni aziendali i lavoratori dei paesi con democrazia economica potrebbero difendere la loro occupazione a scapito dei lavoratori degli altri paesi. La co-determinazione potrebbe anche essere una trappola dei padroni per legare il proletariato al carro del capitalismo avanzato (ma, seguendo questo ragionamento, non bisognerebbe lottare neppure per gli aumenti salariali, perché nel neo-capitalismo gli alti stipendi sono il migliore strumento di subordinazione del lavoro all’impresa).

In effetti aziendalismo, corporativismo e nazionalismo sono i pericoli reali e concreti della democrazia economica. In Germania i lavoratori della Volkswagen non si preoccupano dei diritti sindacali in tutti i paesi in cui la multinazionale dell’auto è presente. Difendono (ovviamente) soprattutto il loro lavoro. Ma la democrazia presenta sempre dei rischi: e tuttavia è il sistema migliore che esiste.

Il vantaggio fondamentale è che essa dà più potere ai lavoratori e contrasta il potere assoluto e opaco degli azionisti e dei manager nelle aziende e negli enti pubblici. Inoltre questa crisi dimostra che attualmente la contraddizione principale di classe non è più tra lavoratori e padroni come nel ventesimo secolo, ma tra finanza speculativa e società. L’1% della popolazione contro il 99%. E la democrazia economica è essenziale per contrastare la finanziarizzazione delle imprese e la speculazione che colpisce sia il lavoro che l’economia reale.

La verità è che in Italia, tra rigido conservatorismo della confindustria, comunismo statalista, subalternità cattolica, sindacalismo orientato alla concertazione dall’alto, si è affermato un modello autoritario di governo dell’impresa e degli enti pubblici. Il potere nell’economia pubblica e privata è rimasto tutto e incontrollato nelle mani delle classi privilegiate, corrompendo la democrazia e i partiti.

Oggi però, nell’economia della conoscenza, esiste la possibilità. e per molti aspetti la necessità, della partecipazione non subalterna alla gestione delle aziende e dell’economia. Con la diffusione dell’istruzione, sta infatti emergendo nei paesi avanzati una nuova tipologia di lavoratori, i lavoratori della conoscenza, i knowledge workers, i creative workers. I lavoratori istruiti che hanno un diploma o una laurea possono essere dipendenti o autonomi, disoccupati e precari o occupati nel settore pubblico o privato: comunque essi rappresentano ormai la maggioranza della popolazione lavorativa. E controllano anche la principale risorsa economica e democratica, cioè le conoscenze e l’intelligenza creativa e innovativa.

La massa dei lavoratori della conoscenza, il cosiddetto ceto medio riflessivo, è ormai in grado di gestire le grandi e medie aziende meglio della proprietà quasi sempre finanziaria che spesso le dirige con effetti disastrosi. I lavoratori della conoscenza sono colpiti dalla drammatica crisi globale che sconvolge in particolare l’Europa e l’Italia. Sono quindi interessati a ribellarsi contro la finanza speculativa che impone un modello di sviluppo distruttivo. Grazie ai knowledge workers sarebbe per la prima volta possibile introdurre elementi di democrazia economica e sviluppare un nuovo modo di produrre, cooperativo, efficiente, innovativo e sostenibile. Così la società ha la possibilità di uscire dalla triplice crisi economica, ecologica e democratica.

Le forze democratiche e di sinistra dovrebbero recuperare la questione centrale della democrazia economica dal basso e coinvolgere finalmente milioni di cittadini nei processi democratici di “partecipazione conflittuale”. La democrazia economica dovrebbe essere imposta per legge nelle aziende pubbliche e private, negli enti locali e a livello nazionale. I referendum e le leggi di iniziativa popolare dovrebbero potere riguardare anche fisco e spesa pubblica. Non è un’utopia. L’esempio tedesco è un riferimento chiaro, concreto e vicino.

NOTE

[1] Luciano Gallino è tra i pochissimi intellettuali che hanno affrontato in maniera radicale e approfondita la questione della democrazia economica: vedi anche il suo intervento su Micromega n3 del 2014, “Più democrazia vuol dire più welfare”, in cui dimostra che la democrazia politica dovrebbe essere fondata su quella economica
[2] vedi Enrico Grazzini, Manifesto per la Democrazia Economica, Castelvecchi Editore, 2014
[3] Vedi gli approfondimenti su queste esperienze nel mio libro già citato sulla Democrazia Economica [4] Gli epigoni italiani della sinistra risentono evidentemente tuttora della tradizione comunista di stampo togliattiano, molto sospettosa nei confronti della spontaneità e della democrazia diretta delle masse, a favore invece della azioni sindacali e politiche condotte in maniera centralizzata da partito e sindacato. Ricordiamoci che la CGIL prima degli anni 70 non concedeva – a differenza della CISL – alcuna autonomia contrattuale alle Commissioni Interne nelle aziende. Ricordiamoci anche che il PCI di Togliatti, di fronte all’attacco padronale, non si oppose duramente allo smantellamento dei Comitati di Gestione creati spontaneamente dai lavoratori alla fine del fascismo per gestire le fabbriche abbandonate dai capitalisti in fuga. Il PCI preferì invece difendere a tutti i costi le Commissioni Interne del sindacato CGIL che controllava pienamente. Nelle fabbriche il PCI privilegiò l’antagonismo di classe; invece in politica era assai più prudente e propenso al compromesso, fino ad arrivare anche al “compromesso storico” con la DC di Giulio Andreotti.

(21 luglio 2014)

Tratto dal sito http://temi.repubblica.it/micromega-online

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