Tra gli elementi che negli ultimi mesi stanno differenziando la posizione della Cisl rispetto a quelle della Cgil e della Uil, pur nell’ambito di una doverosa comunanza di proposte a riguardo delle ricette per contrastare la crisi e sfruttare adeguatamente le risorse europee per la ripresa, vi è certamente il ripetuto richiamo all’importanza dei meccanismi partecipativi in impresa, da incoraggiare proprio in un momento di “impostazione del futuro” com’è quello attuale. La politica ha dimostrato interesse verso l’argomento, tanto tra le forze di Governo che tra quelle di opposizione. Più fredda la reazione di Confindustria e della stessa Cgil.
Non si tratta di una proposta inedita per il sindacato cattolico. Al contrario, la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa è da sempre uno degli spunti tecnici e culturali più originali della Cisl, formulato già da Giulio Pastore e Mario Romani negli anni Cinquanta. D’altra parte, l’articolo 46 della Costituzione prevede che «ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende». Una disposizione che non ha mai entusiasmato il sindacato combattivo degli anni Settanta, né la media e grande imprenditoria di stampo familiare, poiché sottende la costruzione di rapporti di c.d. democrazia industriale necessariamente imperniati su reciproco riconoscimento.
Vi sono inoltre dei veti tecnici e culturali piuttosto rilevanti tanto verso le forme partecipative di stampo economico (partecipazione azionaria e partecipazione agli utili, un modello piuttosto diffuso nella grande impresa francese) che verso quelle di impostazione gestionale (partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione o di sorveglianza, caratteristica peculiare del sistema duale tedesco). Le prime non entusiasmano il sindacato, che ha paura di coinvolgere i lavoratori in meccanismi di “doppia perdita”: in caso di difficoltà a rischio non vi sarebbe solo il posto di lavoro, ma anche i risparmi diventati azioni o una corposa percentuale di salario legata agli utili. Le seconde non piacciono alle imprese, ostili a coinvolgere nelle sedi decisionali i lavoratori o esporre in sede di controllo tutti i documenti aziendali senza una corrispettiva condivisione del rischio di impresa.
Accanto a questi, vi sono altri fattori che negli anni, seppure in gradi diversi, hanno influito sulla modestissima realizzazione delle intenzioni dei costituenti, non da ultimo la piccola dimensione dell’impresa italiana, la pratica diffusa dell’abbattimento degli utili, la scarsa diffusione delle società per azioni, lo scarso interesse dei lavoratori. Di conseguenza in Italia ci siamo abituati a declinare la partecipazione più che altro in modalità informativa: diritti di informazione e consultazione, commissioni bilaterali, referendum tra i lavoratori, ecc. Forme di dialogo, queste, piuttosto diffuse, sovente regolate nei contratti integrativi aziendali, ma poco incisive per la «gestione delle aziende» citata dall’articolo 46.
Perché allora rispolverare oggi questa proposta? Le ragioni sono, a parere di chi scrive, almeno tre.
La prima è prettamente storica e piuttosto banale: i tempi sono cambiati. Quel che non funzionava negli anni Cinquanta, Settanta o Novanta ora è divenuta prassi diffusa. Cosa sono d’altra parte i contratti di produttività, ancor più quelli necessari per accedere alla tassazione agevolata, se non forme di partecipazione ai risultati di impresa? Non a caso è possibile convertire questi premi in azioni, pratica ancora laterale, ma in corso di affermazione. A proposito di conversione, cosa sono gli accordi per l’implementazione delle varie forme di welfare che godono dei vantaggi contributivi previsti dal TUIR se non forme di partecipazione alla gestione di impresa?
A dieci anni esatti dall’approvazione dell’articolo 8 decreto-legge 13 agosto 2011 n.138, cosa sono gli accordi di prossimità se non forme di partecipazione al destino dell’impresa? È significativo che si tratti di accordi che possono prevedere esplicitamente come causale “l’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori”. Non da ultimo: cosa sono le sempre più diffuse politiche di coinvolgimento dei lavoratori nel miglioramento dei prodotti e dei processi se non forme di partecipazione organizzativa, spesso valorizzata economicamente?
Insomma, la partecipazione dei lavoratori al presente e al futuro dell’impresa è ora esperienza diffusa, anche quando difforme da quanto immaginato negli anni dalla dottrina giuslavoristica: perché non strutturare queste pratiche perché possano essere replicate in ogni contesto produttivo?
La seconda ragione è più culturale, ha a che fare con il contributo che i lavoratori possono dare all’impresa. Negli anni Cinquanta e Sessanta gli operai erano certamente meno preparati che ora, con livelli di istruzione molto più bassi, senza occasioni di formazione continua. Gli stessi contesti di lavoro erano molto più caotici e meno organizzati e il mercato di riferimento in larga maggioranza contenuto nei confini nazionali. Non è più così: il titolo di studio più diffuso è ora quello secondario superiore (la maturità), crescono gli operai specializzati che provengono dall’istruzione terziaria non universitaria (gli ITS), nelle imprese che competono in tutto il mondo spesso il numero dei laureati è andato superando quello dei diplomati. In altre parole, si tratta di una “forza lavoro” molto più competente e certamente in grado di interloquire con il management aziendale a riguardo delle scelte produttive o commerciali. Non ha senso (economico prima che etico) ignorare questo bacino di conoscenze interno all’impresa e per forza di cose avente lo stesso obiettivo di fondo.
La terza ragione è di natura circostanziale. La crisi economica che sta seguendo l’emergenza pandemica ha cementato il “fronte produttivo”: imprese e lavoratori sono dalla stessa parte per contrastare un nemico ben più grande di loro, per garantire la sopravvivenza dell’impresa e, nel breve-medio periodo, per riuscire a cavalcare l’onda della ripresa che, contemporaneamente, garantirebbe più utili, più occupati e maggiori salari. Il Covid-19 ha permesso di superare alcuni ostacoli tutti ideologici che impedivano il dialogo, facendo emergere quel fecondo senso di responsabilità comune che ha generato i protocolli per la sicurezza di aprile 2020 grazie ai quali le aziende hanno potuto ripartire, in un momento di terrorizzato immobilismo della politica. Molti altri accordi di questo genere vengono firmati tutti i giorni per garantire sicurezza, continuità di stipendio e futuro produttivo. Perché non sfruttare questa fase di estremo pragmatismo per costruire sul dialogo sbocciato negli ultimi due anni sistemi organizzati di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa?
Per quanto concerne la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, quindi, questa crisi può rivelarsi davvero un’occasione da non sprecare.