Possibile che un’operazione svolta da tre operai possa costare meno di quella progettata per essere eseguita da due? Sì, è possibile. E non è una leggenda metropolitana. Questa storiella – che illustra in poche righe che cosa significa cambiare in meglio il lavoro – è accaduta qualche anno fa a Pomigliano, quando nella grande fabbrica d’auto della Fiat si iniziò a produrre la Panda, che precedentemente era assemblata in Polonia.
La soluzione dal basso
Gli ingegneri avevano stabilito che in una delle stazioni di montaggio due operai avrebbero dovuto prendere da un contenitore il grande pezzo di plastica rigida che riveste internamente il tettuccio dell’auto per poi fissarlo agli appositi ganci. L’operazione era semplice (la plastica è leggera) e non richiedeva particolari sforzi. Inoltre in Polonia, e prima ancora a Mirafiori e Cassino, si era sempre fatto così. Perché cambiare, dunque?
Ma ben presto qualcosa cominciò ad andare storto. Il fatto è che la linea di montaggio della Panda è velocissima, poiché la catena sforna un’auto al minuto. I 54.000 movimenti degli operai necessari per montare i 5.000 pezzi di quella vettura erano stati tutti calcolati al computer, e fluidificati moltissimo nella fase di sperimentazione della nuova linea di montaggio, proprio per eliminare gli intoppi che fanno perdere denaro all’azienda, e fanno impazzire di fatica e cattivo umore chi lavora. Invece, quando la scocca arrivava alla stazione di montaggio dedicata ai rivestimenti interni, il ritmo saltava.
Il montaggio del tettuccio funzionava così: mentre uno dei due operai addetti prendeva il pezzo di plastica e lo inseriva nella scocca, l’altro stava fermo; poi quest’ultimo fissava il tettuccio sugli appositi sostegni del suo lato e si fermava di nuovo, tenendolo con le braccia, in attesa che il collega completasse l’inserimento del pezzo sul lato opposto e verificasse l’assenza di problemi.
Troppo macchinoso. Così tanto da determinare uno spreco di tempo, e quindi di denaro. La soluzione – e qui viene il bello – non arrivò dall’alto, ma dal basso. Furono i sette operai della stazione di montaggio a trovarla, rompendo un tabù che nessun ingegnere avrebbe osato infrangere: produssero un sofisticato progettino con il quale dimostrarono, attraverso l’eliminazione dei tempi morti, che con l’impiego di tre operai invece di due il montaggio del tettuccio sarebbe stato più veloce e con costi più bassi. La Fiat lo accettò.
Industria e operai 4.0
La storiella somiglia a una parabola dei processi di riconfigurazione organizzativa della migliore manifattura italiana e dell’evoluzione sociale a essa collegati. Processi che ruotano intorno a un concetto di fondo: visto che le aziende occidentali sono obbligate a occupare i segmenti più alti dei mercati in cui operano, è inevitabile che i loro dipendenti siano consapevoli di quello che fanno. Altrimenti i nostri prodotti sono destinati a non reggere, né sul fronte della qualità, né tantomeno su quello dei costi.
Un industrialista di vecchia data come il professore della Bocconi Giuseppe Berta sintetizza il tema così: “Le aziende oggi devono far gestire macchinari di enorme valore, fino a milioni di euro, a operai che guadagnano 1.500 euro al mese. È evidente che il tempo del ‘fai così e non fare domande’ è finito per sempre”.
Un altro piccolo esempio? Nell’ultimo contratto integrativo firmato alla Ducati di Bologna, società del gruppo Volkswagen, l’azienda ha insistito per inserire un “premio di polivalenza” destinato a gruppi di operai con profili professionali non solo manuali.
Luciano Pero, docente di organizzazione del lavoro del Politecnico di Milano, ha scritto una dozzina di libri sull’argomento. “In moltissimi posti di lavoro la figura del dipendente come mero esecutore non esiste più, perché non è più conveniente” sottolinea il professore.
A suo dire negli ultimi anni – nell’indifferenza generale dell’opinione pubblica italiana – si sono succedute addirittura tre fasi diverse di “coinvolgimento dei lavoratori”. “La prima la possiamo classificare con il cosiddetto flusso teso”, spiega Pero. “Iniziò negli anni Novanta e portò alla riduzione dei magazzini e all’eliminazione dei tempi morti dovuti alle attese dei pezzi da parte dei lavoratori in linea”. Subito dopo scattò la fase della grande lotta allo spreco, che le aziende hanno avviato cercando di eliminare tutte le attività inutili e i microguasti soprattutto, attraverso un salto di qualità della manutenzione e della prevenzione dei problemi.
“Ai giorni nostri invece siamo al coinvolgimento evoluto”, completa il professore. “Questo significa che le aziende aggiungono alle soluzioni tecniche delle fasi precedenti la costruzione di un nuovo rapporto con i dipendenti che si basa a sua volta su tre componenti. Primo: la richiesta di suggerimenti di miglioramento dei processi produttivi, accompagnata spesso alla rotazione nelle mansioni quotidiane, cosa gradita ai giovani e molto meno dai lavoratori più anziani. Secondo: il lavoro in squadra. Nei gruppi industriali grandi e medi ormai gli operai lavorano in piccoli gruppi affiatati cui vengono dati obiettivi precisi, talvolta autonomia nella distribuzione e nella rotazione delle mansioni e, in alcune situazioni del Nord Europa, anche la gestione in proprio di piccole somme di denaro o di premi. Terzo elemento del coinvolgimento evoluto è l’arrivo in fabbrica di Industry 4.0, ovvero di tecnologie digitali che consentono l’integrazione fra uomo e macchina o la gestione del flusso di informazioni tra macchinari”.
Un’istantanea della nuova classe operaia
Ma in questo scenario sta maturando qualcosa di più sul piano sociale e culturale. Basta sfogliare l’indagine della Cisl dedicata al tema Tecnologia e lavoro che cambia per fissare un paletto: la fabbrica è tornata a essere uno dei propulsori dell’innovazione; non solo produttiva, ma anche sociale. “La figura dell’operaio in linea di montaggio di oggi non è più quella fordista, e neanche quella legata allo scambio toyotista fra sapere operaio e welfare aziendale di qualche decennio fa”, conferma Luciano Pero. “La verità è che l’innovazione è essenziale per il futuro delle aziende ma può svilupparsi a velocità adeguata solo in sistemi sociali aperti”.
Che cosa significano queste parole, in concreto? Ne troviamo alcuni esempi in due libri recenti, Nel paese dei disuguali di Dario Di Vico (Egea) e La nuova chiave a stella di Edoardo Segantini (Guerini), nei quali tra l’altro si descrive il cambiamento profondo della figura del dipendente – non solo operaio – che il sociologo Antonio Schizzerotto divide ormai in tre classi, assegnando a quella che lavora per le multinazionali e le aziende meccaniche l’Oscar di “figura sociale tenuta in palmo di mano dalle aziende”.
Un ulteriore tassello di questo puzzle lo aggiunge il sociologo del Censis Marco Baldi, che ha condotto una ricerca sui quasi 8.000 dipendenti della fabbrica Fiat di Melfi, in Basilicata, dalla quale nel 2017 sono partite più di 100.000 Jeep Renegade per il mercato Usa: “Fra le tante cose che mi hanno colpito – spiega Baldi – ce n’è una che spicca: le persone che lavorano in quello stabilimento conoscono il valore di quello che producono, sanno che sono in vantaggio rispetto ad altre fabbriche Fiat e non vogliono perdere questo gap positivo. Sanno che il non ritorno alla cassa integrazione dipende anche da loro”.
Baldi assicura che gli 8.000 operai lucani sono molto coinvolti (“È quasi un’ossessione”) nell’eliminazione degli sprechi. Su tutto: dall’acqua, all’energia, al tempo. “A Melfi la chiamano ottimizzazione dei fattori produttivi. Ma questa spinta ha una ricaduta positiva anche sulle persone, perché la fatica in linea di montaggio è stata quasi azzerata, e la fabbrica è pulitissima e ordinata come una clinica svizzera. Inoltre, se ti mettono sotto i piedi un pavimento che assorbe e redistribuisce il tuo peso corporeo perché devi lavorare bene e non ammalarti, è chiaro che ti senti una risorsa”.
La condivisione del lavoro per il benessere di tutti
Si tratta di risultati figli di modelli organizzativi poco conosciuti in Italia, come il World Class Manufacturing adottato da Fiat o il Pirelli Production System, che in molte aziende, soprattutto meccaniche ma anche farmaceutiche e chimiche, stanno cancellando il vecchio modello verticale della catena di comando in stile militare a favore di una maggior spinta dal basso alla vita aziendale.
Non si tratta di sperimentazioni illuministe, ma di un nuovo modo di intendere il lavoro e di investirci. In Fiat quando si deve progettare una linea di montaggio di un nuovo modello ormai vengono coinvolti tutti in modo sistematico. Il modello WCM prevede la costruzione di un capannone ad hoc, il work place integration, dove ingegneri e operai lavorano per mesi fianco a fianco per evitare casi come quello del tettuccio della Panda. Anche i sindacalisti affermano che Melfi è la prima grande fabbrica italiana a essere stata progettata da ingegneri e operai.
Perché la condivisione del lavoro, in ultimi analisi, è il mattoncino di base di un processo di estrema complessità, che fra mille difficoltà sta tornando a creare prodotti migliori in aziende dinamiche che arricchiscono l’intero sistema sociale.
(www.informazionesenzafiltro.it, 31.01.2018)