E’ di poche ore fa una svolta storica di Confindustria sui contratti di lavoro di cui solo gli osservatori più attenti si sono accorti. Nel suo discorso all’assemblea annuale privata degli industriali, il presidente Giorgio Squinzi ha proposto di rivedere profondamento il modello dei contratti di lavoro legando strettamente retribuzioni e produttività.
Dietro queste parole c’è un progetto chiaro di Confindustria: il superamento del contratto nazionale, che resterebbe comune solo per gli aspetti normativi, mentre le retribuzioni sarebbero legate all’andamento dell’azienda, ai risultati d’impresa ed alla produttività. Di più se l’impresa va bene, di meno se l’impresa o il mercato va male. Non è il modello Fiat di Sergio Marchionne, poiché lì il contratto aziendale sostituisce tutto, ma è qualcosa che si avvicina al modello partecipativo, che rappresenta la nuova frontiera dei contratti.
Perché parliamo di nuova frontiera? Perchè superando lo steccato ideologico che divide dipendente ed imprenditore, tutti remerebbero nella stessa direzione, oltre che per coscienza anche per convenienza comune. Sarebbero gli stessi lavoratori ad avere interesse al massimo aumento della produttività. Sarebbero gli stessi lavoratori a “stimolare” i colleghi scarsamente produttivi ed incapaci di fare squadra (e quindi autolesionisti). Sarebbero gli stessi lavoratori, ogni mattina, ad andare al lavoro facendo il tifo per la propria impresa e per il suo successo, che sarebbe anche il loro successo, morale ed economico. E non succederebbe più che l’impresa moltiplica il fatturato e gli stipendi restano sempre gli stessi.
E’ interessante citare il caso di un’azienda di Vicenza che produce vasi di terracotta. I titolari di quest’impresa, affascinati dal modello partecipativo, hanno provato qualche anno fa a distribuire azioni dell’impresa ai dipendenti, per coinvolgerli maggiormente nell’azienda. Le commesse intanto crescevano. E quando, d’inverno, la neve ha paralizzato gli impianti, rischiando di bloccare le commesse, insieme imprenditori e operai si sono messi a spalare fino a ripristinare il normale funzionamento delle macchine. Il risultato è stato straordinario: le commesse sono cresciute insieme alla produttività e l’azienda è andata a collocarsi al primo posto nel mondo nella produzione di vasi di terracotta.
E’ questo il motivo per cui il modello partecipativo “liberale”, quello che aggancia le retribuzioni ai risultati d’impresa, è sostenuto sia dalla Cisl (“raccogliamo positivamente l’apertura di Confindustria per rilanciare la competitività e la produttività delle imprese italiane rendendo peraltro più solide le buste paga dei lavoratori”), sia dalla UIL (“Confindustria è pronta? Era ora. Noi abbiamo già definito la proposta due mesi fa”).
Non è escluso che anche il Governo apra prossimamente in qualche modo al modello partecipativo. Consapevole dei riflessi di questo modello non solo sulla produttività ma anche sull’occupazione. Due autorevoli studiosi del modello partecipativo come Mead e Weitzman, pur partendo da prospettive diverse, hanno infatti dimostrato che, se adottato pienamente, è l’unico in grado di favorire, in prospettiva, la piena occupazione.
L’ostacolo maggiore sulla strada del modello partecipativo è invece l’ostilità ideologica della Cgil. Già il leader della FIOM Landini si è scagliato contro questa prospettiva poiché porta alla fine del contratto nazionale. E la Camusso ha sempre contrastato questa prospettiva. Per quale motivo? In realtà per una motivazione al fondo ideologica. Il contratto nazionale favorisce pari retribuzioni per ogni lavoratore, indipendentemente dai costi della vita, dalle differenze territoriali, dall’andamento del mercato, dall’andamento dell’impresa. E nella prospettiva marxista la coscienza di classe dei lavoratori è legata all’uguaglianza del reddito percepito: si è convinti, insomma, che se un lavoratore prende mille ed un altro duemila, non si sviluppa tra loro quel sentimento di solidarietà che deve portarli a sentirsi classe ed a contrapporsi insieme al datore di lavoro. Tutto questo anche a scapito della possibilità di guadagnare di più e di aumentare l’occupazione.
Le recenti parole di Confindustria a favore dell’aggancio dei salari alla produttività, dopo le convinte adesioni di CISL e UIL, portano comunque la corrente verso una forma di modello partecipativo. Il Governo è chiamato su questo a sua volta ad una scelta storica, che potrebbe ancora una volta comportare l’ennesima rottamazione di un vecchio residuo ideologico.
(D. Crocco, www.officinaitalia.it, 05.08.2015)