Amedeo Pugliese e Antonio Vanuzzo – La cogestione significa responsabilizzare i lavoratori

Sebbene l’art. 46 della Costituzione riconosca «il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende», in Italia il tema non è mai stato affrontato davvero. Nel 2009 il governo, con Tremonti e Sacconi, si impegnò a siglare un impegno a promuovere la cogestione. Eppure l’apertura della Cgil sul tema – tramite l’intervento del  segretario Camusso sulle pagine delCorriere – è storia recente, legata alla conquista di Telecom da parte degli spagnoli di Telefonica.

La modifica del tessuto produttivo – da un modello industriale classico e relativamente stabile a imprese in cui il capitale umano prevale – impone una revisione delle “strutture di contributi e ricompense” che sono alla base delle forme di governo delle imprese. Tuttavia,le teorie di governance e l’evidenza empirica non lasciano spazio a una soluzione univoca, e due modelli sembrano prevalere: la partecipazione dei dipendenti agli utili aziendali e la rappresentanza dei medesimi negli organi di gestione.

La compartecipazione agli utili: falsi miti e il rischio di sottovalutare il rischio

Circa un anno fa Brunello Cucinelli, amministratore delegato e presidente dell’omonima società quotata in Borsa, annunciava di voler elargire circa 5 milioni di Euro ai dipendenti per premiare chi “è cresciuto con l’azienda”. Sebbene non si trattasse di compartecipazione agli utili – bensì di un regalo della famiglia proprietaria – l’annuncio ebbe una grande eco, a testimoniare la rarità di eventi del genere in Italia.

Una delle opzioni per coinvolgere i dipendenti – e non solo il top management – nella gestione è la partecipazione degli utili, che lega una parte della remunerazione alla redditività dell’azienda. Per comprendere se la compartecipazione sia una scelta efficiente, due aspetti meritano attenzione: in primis, questo strumento comporta necessariamente una condivisione delle potenziali perdite. La questione non è puramente giuridica, ma ha fondamenti economici che risalgono alle teorie “contrattualistiche” di Coase (1937) e Williamson (1966). Il nodo cruciale è il rischio: è l’imprenditore, e non il manager a sopportare il rischio d’impresa (la possibilità di ottenere profitti ma anche di registrare perdite); solo dopo aver remunerato tutti i fattori produttivi, innanzitutto il lavoro dei dipendenti, ha diritto al rendimento residuale (l’utile).

Negli schemi economici classici, i dipendenti sono consideratifixed claimants, perché il loro contributo (le ore lavoro) e il loro compenso sono noti e fissati contrattualmente. In un contesto economico stabile o di crescita questo assunto aveva senso perché le aziende, specialmente se di grosse dimensioni, garantivano livelli di occupazione stabili. Probabilmente adesso tale assunto è poco più che un buon auspicio. Aprire ai dipendenti le porte dell’azionariato (employee stock ownership participation, ESOP), comporterebbe il trasferimento di una parte del rischio ai dipendenti. Questo implica che se i risultati di uno o più anni consecutivi fossero negativi i lavoratori della azienda dovrebbero rinunciare a parte del compenso o addirittura risanare le perdite. Inoltre i dipendenti, a differenza degli investitori, non possono diversificare il rischio.

Il secondo aspetto di cui tenere conto è l’obiettivo che si intende raggiungere attraverso la partecipazione dei dipendenti agli utili aziendali. In alcuni casi si tratta di creare meccanismi d’incentivo (il compenso dei dipendenti è funzione della performance), in altri si perseguono obiettivi di equità o di maggiore rappresentatività negli organi di governo  Nei diversi paesi in cui pratiche del genere sono diffuse, gli obiettivi e i risultati sono stati molto diversi.

Se gli studi sul tema non sono ancora in grado di dissipare i dubbi circa l’efficacia di questa praticaciò che appare chiaro è che la natura del business e il capitale umano hanno un ruolo fondamentale. L’esperienza di Taiwan e Singapore nel settore dell’ information technology (ICT) suggeriscono l’assoluta necessità di rendere i dipendenti proprietari delle aziende, facendoli partecipare agli utili.

Il meccanismo è chiaro e l’evidenza empirica spinge verso nuovi modelli di governance. Nei settori in cui il capitale umano è predominante (si pensi alle partnership professionali) i dipendenti incidono direttamente, e in modo quantificabile, sul fatturato aziendale. In tali settori le forme di compartecipazione agli utili sono già diffuse. I dipendenti sono anche proprietari e spesso siedono nel CdA: il principale asset da remunerare è la competenza e la capacità di generare reddito. Ulteriori esempi sono le banche d’affari, le società di consulenza e revisione contabile i cui dipendenti ‘scalano’ la gerarchia fino a diventare partner, cioè di fatto proprietari.

La rappresentanza dei dipendenti negli organi di governo

Una seconda strada percorribile è aprire alla rappresentanza dei dipendenti negli organi di governo, per esempio nel consiglio di amministrazione (Cda). Il Cda è l’organo che definisce la strategia aziendale e svolge una funzione di monitoraggio per assicurare che i fattori produttivi siano adeguatamente remunerati.

Nella tradizione olandese e tedesca i rappresentanti dei dipendenti (e dei sindacati maggiori nelle principali aziende tedesche) siedono in Cda. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale nell’Europa continentale si è affermato un modello di co-gestione (o duale), in cui i rappresentanti di azionisti, banche e dipendenti fanno parte del consiglio di supervisione (supervisory board), mentre sono esclusi dal consiglio di gestione (management board). La spaccatura del consiglio in due anime distinte consente di separare la definizione delle strategie, di spettanza del consiglio di supervisione, dalla gestione operativa, di competenza del consiglio di gestione. Ciò garantisce che la ricerca di equilibri (politici) tra le diverse anime non infici l’operatività del management.

Duale nelle principali società tedesche (Fonte: Brookings Institutions)

Le esperienze internazionali

In Europa, uno dei paesi più all’avanguardia su questo tipo di politiche è la Germania, nel 2011 e 2012 la casa automobilistica Volkswagen ha elargito un ricco bonus di produzione di 7500 e 7200 euro ai propri dipendenti. Anche in questo caso si è trattato di un bonus e non di una compartecipazione agli utili. Inoltre i dipendenti Volkswagen sono chiamati ad ‘approvare’ la remunerazione dell’amministratore delegato. Ipotesi impensabile in Italia.

Come già accennato, ancora più di lunga data è la cogestione, su cui la Germania vanta ormai una tradizione lunga sessant’anni. La legge tedesca a impone alle Aktiengesellschaft, equiparabili alle Spa, tre organi di governance: consiglio di sorveglianza, consiglio di gestione e assemblea dei soci  Se la società ha più di duemila dipendenti, nel consiglio di sorveglianza lavoratori e azionisti devono avere pari rappresentanza: si va dai dodici membri (6+6) delle aziende fino a 10mila dipendenti numero che può salire fino a venti per le imprese con oltre 20mila dipendenti.

«Se dai diritti alla gente, quella si assume delle responsabilità: ecco cosa ci ha insegnato la Mitbestimmung», ha detto alFinancial Times Berthold Huber, presidente dell’IG Metall, il sindacato dei metalmeccanici tedeschi che conta 2,25 milioni di iscritti, aggiungendo: «Una grande parte della nostra formula salariale è sempre legata alla produttività». Emblematico il caso Opel: da un lato IG Metall lo scorso gennaio non ha accettato il congelamento degli aumenti salariali proposto dal management della casa automobilistica, dall’altro ha però mandato giù la chiusura dello stabilimento di Bochum a partire dal 2014.

Il modello tedesco è stato introdotto in Italia nel 2003, al recepimento della Disciplina sulla Società europea; peccato che ciò non comporti l’obbligo di introdurre alcuna garanzia di compartecipazione. Non a caso il duale in Italia «non è mai stato utilizzato per realizzare forme di compartecipazione dei lavoratori alla sorveglianza dell’impresa»scrive su lavoce.info Andrea Restidell’Università Bocconi.

I nodi da sciogliere

Nelle imprese industriali, il problema di governance è evidente ma la soluzione spesso paventata – la partecipazione dei dipendenti agli utili – può essere addirittura controproducente. Il sistema economico e finanziario odierno è concentrato sulla ‘tutela’ degli azionisti e sulla massimizzazione del valore azionario. Se in alcuni casi esistono meccanismi di protezione per gli azionisti di minoranza, niente del genere esiste per la tutela dei dipendenti.

Senza arrivare a soluzioni potenzialmente rischiose come la partecipazione azionaria dei dipendenti, forme di governance alternative sono già ampiamente consolidate: aprire gli organi di governo ai rappresentanti dei dipendenti, possibilità offerta dal modello dualistico, e incentivare il ricorso a meccanismi di remunerazione più flessibili (ad esempio i bonus). Entrambe le forme richiedono una diversa ripartizione del rischio d’impresa e la ricerca di un nuovo equilibrio tra investitori e dipendenti: senza, nessuna modifica sarebbe ipotizzabile.

(28 ottobre 2013)

Tratto dal sito www.linkiesta.it

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