In Italia, solo il 23% dei lavoratori dipendenti beneficia di regimi di pagamento variabili in base alla produttività e solo il 13,4% delle aziende riconosce bonus ai dipendenti e ai collaboratori legati al raggiungimento degli obiettivi di produttività, efficienza e qualità. E’ quanto emerge dalla relazione della Commissione UE sul mercato del lavoro e sugli sviluppi salariali nel 2018, che sottolinea l’importanza della produttività per sostenere la crescita dei salari. E se l’Italia non brilla nello scenario europeo, per il cambio di rotta determinante sarà il ruolo delle aziende. Una partita ancora aperta?
La Commissione europea ha monitorato il mercato del lavoro dei 28 Paesi con particolare riguardo ai potenziali sviluppi salariali.
Dal rapporto “Mercato del lavoro e sviluppi salariali in Europa 2018″, si evince che sia nel 2016 che nel 2017, la ripresa del mercato del lavoro è proseguita ad un ritmo sostenuto, raggiungendo un tasso di disoccupazione inferiore ai periodi di crisi.
Malgrado la crescita economica e occupazionale rilevata, viene evidenziata che la bassa crescita della produttività e perdurante incidenza di manodopera scarsamente (o non) utilizzata impediscono una crescita costante dei salari.
Migliora sicuramente nel 2017 il numero delle posizioni vacanti, segno che la disoccupazione è ormai ai livelli strutturali e il tasso di partecipazione al mercato del lavoro nella UE e nell’eurozona è pari al 73% grazie soprattutto alla manodopera femminile e agli over 50.
La crescita salariale è invece al 1.2% senza alcuna variazione rispetto all’anno precedente, a causa di una perdurante ridotta produttività e delle aspettative sull’inflazione, ancora deboli e permangono sostanziali differenze tra paesi diversi, sia per quanto riguarda l’andamento del mercato del lavoro che le dinamiche salariali stesse.
Le competenze sono la frontiera dell’innovazione e della sfida allo sviluppo perché il panorama dell’occupazione è -e rimane – costantemente ridefinito da modifiche strutturali ampiamente determinate dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione.
Vi sono tuttavia anche altri fattori (come i cambiamenti demografici e nuovi modelli di impresa) che producono effetti molto significativi per gli esiti del mercato del lavoro e per tanti altri aspetti della vita professionale dei cittadini europei e ovviamente dei loro salari. E’ utile commentando le valutazioni del Rapporto, ricordare che a partire dall’adozione della strategia europea per l’occupazione, avvenuta nel 1997, gli Stati membri si sono impegnati a fissare una serie di obiettivi e traguardi comuni per la politica occupazionale, il cui scopo principale consiste nel creare posti di lavoro più numerosi e migliori in tutta l’UE.
Questi obiettivi e traguardi fanno parte della strategia per la crescita “Europa 2020” e vengono attuati nel corso del semestre europeo. Un processo annuale che promuove uno stretto coordinamento politico tra gli Stati membri e le istituzioni dell’UE.
Il 22 maggio 2018 il Consiglio dell’Unione europea ha adottato, su proposta della Commissione europea, una nuova Raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente che va a sostituire la Raccomandazione del 2006, una delle più apprezzate iniziative europee nel campo dell’istruzione, che ha contribuito allo sviluppo di un’educazione e di una formazione su misura per le esigenze dei cittadini della società europea.
In quanto ai salari il Rapporto rileva che nei paesi dell’Europa centrale e orientale sono aumentati più rapidamente che nel resto dell’Unione europea, puntando verso una convergenza dei salari reali. Non bisogna però dimenticare che differenze significative riguardano soprattutto la composizione del costo del lavoro (salari e stipendi, contributi sociali e altri costi): sono sempre di più le imprese che utilizzano sistemi di retribuzione variabile come supplemento al normale salario.
Negli ultimi anni, strumenti come premi di produzione e di risultato, salari integrativi “in natura”, servizi di welfare aziendale e sistemi di partecipazione finanziaria hanno iniziato a giocare un ruolo chiave nella relazione tra dipendente e datore di lavoro. Nel tentativo di evidenziare le tendenze in atto su questo fronte, Eurofound (organismo dell’Unione Europea) ha pubblicato nel 2016 una ricerca su tutti gli Stati membri sui servizi “in natura” a completamento della retribuzione.
Secondo quanto emerge dell’analisi di Eurofound (Changes in remuneration and reward systems), l’utilizzo di sistemi di retribuzione supplementari varia notevolmente in base alle caratteristiche dell’azienda. Questi strumenti tendono a essere più diffusi nel settore privato (con alcune eccezioni) e in alcuni settori produttivi, tra cui il settore delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, quello finanziario e quello assicurativo.
Anche le dimensioni aziendali sono un fattore influente. Le grandi aziende ricorrono più frequentemente all’utilizzo di questi sistemi rispetto alle piccole e medie imprese. Lo stesso vale per le società di capitale, le multinazionali e le realtà situate in regioni economicamente più avanzate.
Vi sono poi alcune differenze anche tra i lavoratori. Secondo i dati raccolti, gli uomini tendono a beneficiare di questi sistemi più delle donne. Così come i dipendenti che si trovano della fascia di età 40-49 rispetto ai lavoratori più giovani e quelli più anziani. I bonus, i salari in natura e le prestazioni di welfare aziendale tendono inoltre a essere più diffusi tra i manager, i dirigenti e i quadri rispetto ai lavoratori con una qualifica professionale più bassa.
Si sottolinea, infine, che la presenza di sistemi di retribuzione che integrano la forma monetaria è aumentata sensibilmente negli ultimi decenni, sia in termini di numero di imprese che la adottano sia nella quantità di dipendenti interessati. Oltre il 60% delle imprese che operano nei Paesi UE utilizzano forme di retribuzione variabile. Si osservano però rilevanti differenze tra gli Stati membri: in Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia, ad esempio, oltre l’80% delle aziende considerate utilizza una o più forme premianti; mentre in Paesi come Belgio, Croazia, Cipro, Ungheria, Italia, Portogallo e Spagna la percentuale di imprese è più bassa e va dal 47% al 53%.
Circa l’uso dei salari integrativi “in natura” e dei fringe benefit, i Paesi che utilizzano di più queste forme retributive sono il Belgio, la Francia e la Norvegia. In Italia, solo il 23% dei lavoratori dipendenti beneficia di regimi di pagamento variabile e solo il 13,4% delle aziende prevede un bonus per i propri collaboratori. Tali bonus sono solitamente legati al raggiungimento di obiettivi di produttività, efficienza e qualità (92% dei casi). Infine, nel nostro Paese solo il 9% dei lavoratori riceve fringe benefit, che possono variare dai buoni pasto alle auto e telefoni aziendali, fino alla formazione e a formule assicurative o sanitarie e infine, solo l’8% dei lavoratori beneficia di sistemi pensionistici integrativi, generalmente avviati grazie alla contrattazione collettiva.
In buona sostanza se da una parte il Rapporto della Commissione auspica maggiore produttività che significa anche aggancio alle retribuzioni e dunque salari migliori, si deve ricordare che i sistemi di integrazione della retribuzione monetaria, pur con alcune differenze nei vari Paesi dell’Unione, sembrano essere uno strumento sempre più diffuso in Europa. Questo accade perché tali forme retributive sono connesse a una serie di vantaggi concreti: hanno la capacità di stimolare la motivazione, l’attaccamento e l’identificazione dei dipendenti con la propria azienda e, in questo senso, possono divenire anche un meccanismo per reclutare e mantenere alcune figure professionali chiave riducendo il turn-over e per aumentare l’attrattività della azienda. Dal punto di vista dai datori di lavoro, offrono una maggiore flessibilità nella gestione dei costi e godono spesso di trattamenti fiscali e contributivi favorevoli.
Vero è che la riduzione della spesa contributiva, pur offrendo un incentivo significativo alle imprese e al datore, può destare preoccupazione nei lavoratori: la perdita di una parte (seppur piccola) dei contributi previdenziali nel lungo periodo può portare a una riduzione dell’ammontare del trattamento pensionistico. Questo è, ad esempio, ciò che accade nel nostro Paese con la normativa – introdotta dalla legge di Stabilità del 2016 – che regola la possibilità di convertire il premio di risultato in beni e servizi di welfare aziendale. Solo il 35% delle aziende Italiane lega la retribuzione dei propri dipendenti ad una valutazione delle performance individuali degli stessi, e, dato ancor più significativo, solo il 18% delle aziende prevede forme di retribuzione di produttività o di redditività.
L’Italia non brilla nello scenario comparato, ed anzi si distingue per un grado di variabilità della retribuzione tra i più bassi in Europa.
La partita del collegamento tra i livelli salariali e la produttività si potrà giocare e vincere solo a livello aziendale e i più recenti processi in atto nel mercato del lavoro amplificano le criticità del nostro sistema di determinazione salariale e ne impongono un ripensamento.