Sono un ricercatore della Fondazione Di Vittorio (l’istituto di ricerca e formazione della CGIL nazionale, già IRES e poi Ass. “B. Trentin”), dove mi occupo di relazioni industriali. Mi sono laureato in Scienze Politiche a Catania e ho un dottorato di ricerca in diritto dell’economia. Faccio parte di diversi network internazionali di ricerca e – visto che la Mitbestimmung è il vostro tema – collaboro abitualmente coi colleghi tedeschi della Fondazione Hans Boeckler e della Friedrich Ebert, con cui – di recente – abbiamo pubblicato dei libri e condiviso progetti e conferenze.
La partecipazione dei lavoratori nell’impresa è tema che mi appassiona da molto tempo, avendone trattato e scritto in numerose occasioni e da diverse prospettive. Un paio di libri sulle normative europee (La partecipazione dei lavoratori nell’UE e nel diritto italiano. I diritti di informazione consultazione dopo il d.lgs. 25/2007. Ediesse, 2010, e I CAE a 20 anni dalla loro nascita, Ediesse, 2014) e soprattutto saggi, fra cui Ideologie giuridiche e politiche sindacali nel dibattito costituente sulla partecipazione operaia: l’art. 46, in AAVV, “Il lavoro nella Costituzione”, Ediesse, 2006; Per una ripresa del dibattito sulla democrazia industriale: analisi e proposte fra storia e prospettive, in L. Pennacchi (a cura di), Tra crisi e “grande trasformazione”. Libro bianco per il Piano del Lavoro 2013, Ediesse; (con Paolo Borioni), Modelli di partecipazione a confronto: Germania e Svezia, in Carrieri, Nerozzi, Treu, La partecipazione incisiva. Idee e proposte per la democrazia possibile nelle imprese, ASTRID, il Mulino, 2015. Proprio in questi giorni, la rivista dell’Istituto sindacale europeo “Transfer”, edita dall’inglese SAGE, pubblica in apertura un mio saggio che traccia un ritratto a tutto campo della partecipazione in Italia (Employee participation and involvement: the Italian case and trade unions issues). Voglio infine dire che l’impegno nella formazione sindacale di quadri e funzionari, oltre all’attività di ricerca, è quella che mi dà più soddisfazione, offrendomi l’opportunità di interloquire direttamente col mondo del lavoro e sindacale. Dall’interno – peraltro – della più grande organizzazione di massa rimasta in questo paese.
Il suo punto di vista sulla democrazia in azienda?
Costituisce un obiettivo primario di civiltà giuridica e di evoluzione socio-economica di un sistema produttivo e delle sue relazioni industriali. Una delle ragioni stesse dell’esistenza del sindacato, se inteso quale potere effettivo di esercitare una influenza significativa sulle scelte datoriali che più impattano sulle condizioni di vita e lavoro dei dipendenti. Nel suo molteplice significato – politico e normativo – la democrazia sul lavoro deve ambire ad investire le scelte strategiche dell’impresa, nonché il suo modello di organizzazione del lavoro, attraverso un adeguato mix di contrattazione collettiva, conflitto e diritti partecipativi. Da quelli di informazione alla co-determinazione, attraverso poteri e procedure incisive e tempestive di coinvolgimento delle rappresentanze collettive e sindacali.
Come per la democrazia politica, anche per quella economica ed industriale, io vedo oggi grande necessità, ma anche l’insidia di una pluralità inedita di sfide. La globalizzazione, la finanziarizzazione, i nuovi paradigmi dell’organizzazione socio-tecnica, tendono in un modo o in un altro ad esautorare il tradizionale confronto sindacale, con una “sparizione” dei centri deliberativi da cui si irradiano le decisioni che il sindacato dovrebbe condizionare.
La centralità degli azionisti impone una ri-configurazione dell’impresa capitalistica, dalla quale escono ridimensionati gli interessi di medio-lungo termine degli altri stakeholders, lavoratori in primis. La natura multinazionale delle imprese, con le loro complesse costellazioni proprietarie, si rivela inarrivabile per sindacati la cui natura rimane quasi inevitabilmente nazionale e locale.
I rapporti di forza, in questi anni, sono drasticamente virati a vantaggio del capitale, e per il lavoro si restringono gli spazi – pratici e politici – per perseguire una soddisfacente democratizzazione nella vita delle aziende. La classe decisionale strategica la considero oggi – e forse irreparabilmente – fuori dalla portata dei sindacati aziendali e settoriali. Il ruolo sovranazionale dei CAE, della Società europea, della contrattazione transnazionale di gruppo,, strutturalmente insufficiente per ovviare allo sbilanciamento di potere che si è venuto a creare.
Dove a mio avviso resta tuttavia un margine significativo è nella sfera nell’organizzazione del lavoro. La world class manufacturing – coi suoi corollari nel just-in-time e nello zero scorte e conflitti – espone le aziende ad una fragilità che va saputa sfruttare. Il rischio infatti di un arresto della produzione può oggi determinare danni maggiori che non ai tempi in cui le merci venivano massicciamente stoccate. Ciò spiega anche l’ossessione datoriale verso l’esigibilità degli accordi e della prevenzione del conflitto, in presenza di un diffuso tracollo degli scioperi, a livello internazionale. Pretende vincoli più rigidi al diritto di sciopero – alla tedesca – ben guardandosi dal bilanciarlo con una partecipazione societaria.
E allora: se il lavoro, da vincolo quale era ritenuto in epoca fordista, viene ora innalzato a risorsa preziosa, allora può trasformarsi nuovamente in vincolo, qualora la sua messa a disposizione venga adeguatamente contrattualizzata e ricompensata. Su questo, io credo, il sindacato può rifondare un presidio di democrazia. Rendere la sua nuova qualità produttiva un fattore di scambio negoziale, nella prospettiva di una maggiore democrazia al lavoro.
Quali strategie ritiene prioritarie nel contesto italiano e quali i vantaggi socio-economici di una maggior partecipazione dei lavoratori nella creazione e distribuzione meritocratica del valore aziendale?
Idealmente, sarebbe necessario varare una legislazione che accresca e potenzi le sedi e le occasioni nelle quali i lavoratori e le loro rappresentanze possano far sentire la loro voce. Dunque, soglie più basse delle attuali per l’esercizio dei diritti di informazione e consultazione nelle aziende, portandole da 50 a non più di 25. Sanzioni più significative per le aziende che non vi si attengano, oggi ridicolmente basse.
Nella migliore delle ipotesi, una legge sulla partecipazione societaria, sul modello di quella quasi-paritetica in Germania. L’art. 46 della nostra Costituzione (come anche l’art.3.2), dispone un fondamento ordinamentale adeguato. Il sindacato farà bene se riuscirà a parlare con una sola voce a riguardo. L’Italia è del resto uno dei pochi paesi europei a non avere norme significative a riguardo. La loro esistenza, in altre economie – e alcune fra le più avanzate del mondo – attesta quanto meno la mancanza di ripercussioni negative sulla competitività del sistema produttivo. Anzi! Pensiamo alla Germania o ai paesi scandinavi. I vantaggi socio-economici sarebbero molteplici, favorendo una maggiore responsabilizzazione reciproca tra capitale e lavoro, e temperando lo strapotere di cui è oggi dotata l’impresa, fra precarizzazioni del lavoro e indebolimento della contrattazione collettiva.
Una disciplina legale della partecipazione, o co-determinazione, avrebbe il pregio di formalizzare istituti e diritti che – nella nostra tradizione e prassi contrattuale – si sono rivelati troppo facilmente eludibili. Essa potrebbe inoltre coniugarsi con una contestuale regolazione della rappresentanza e della contrattazione, secondo l’impianto contenuto nel Testo Unico del gennaio 2014.
Il volontarismo che così peculiarmente contraddistingue ormai il sistema italiano delle relazioni industriali rischia di finire su un binario morto. Come anche, l’esperienza ce lo ha insegnato, una legge che dovesse rimandare all’esclusiva volontà dei negoziatori aziendali, l’introduzione di schemi partecipativi. Le proposte di legge depositate in Parlamento riflettono questa velleità. Siamo seri: nessuna azienda costituirà mai, spontaneamente, un consiglio di sorveglianza partecipato da operai e sindacati. Al limite, potrà prediligere forme di partecipazione finanziaria o legate al welfare aziendale, al solo scopo di ricapitalizzarsi da un lato e de-monetizzare la retribuzione variabile. La tradizione diffidenza sindacale verso queste forme – spesso paternalistiche e/o di mero marketing reputazionale – non ha, a mio modo di vedere, motivo di venire meno oggi. Anzi!
Con un legislatore e un padronato, che delle esperienze estere invocano di emulare solo gli aspetti contrari al lavoro (mercato del lavoro anglosassone; licenziamenti danesi; scioperi tedeschi; aziendalizzazione della contrattazione spagnola), difficile sperare che si possa approdare a leggi sulla codeterminazione di stampo tedesco o svedese. Per non parlare poi di vecchie e gloriose utopie, come quella del Piano Meidner. Che peraltro, ricordi molo: vennero varate in circostanze storiche e politiche in cui il movimento operaio era al massimo della forza (dopoguerra; anni ’70), e da allora mai più del tutto al riparo dal desiderio datoriale e conservatore di abrogarle o emendarle robustamente. In Germania, ad esempio, le imprese utilizzano la normativa comunitaria sulla Società europea per dissimulare fusioni che facciano aggirare soglie e regole della legislazione societaria tedesca.
Resta dunque, nell’immediato, la disincantata consapevolezza che il grosso del compito spetterà ancora una volta alla contrattazione collettiva. Che proprio perché temporaneamente alleggerita dall’onere di recuperi inflattivi drammatici, come era in passato, potrebbe riqualificare il proprio ruolo – in tempi di deflazione – sui temi dell’organizzazione e della qualità del lavoro e della produzione, investendo capacità e risorse nella ricerca, nell’innovazione e nella formazione continua.